Nato a Lecco nel 1975, si laurea in architettura al Politecnico di Milano nel 2002. Durante gli studi universitari si specializza in fotografia dell’architettura e attualmente collabora con privati, aziende e istituzioni per la comunicazione di progetti di architettura, interior design e paesaggio urbano. Dal 2013 è cultore della materia presso i laboratori di progettazione architettonica al Politecnico di Milano, pubblicando approfondimenti sulla lettura del territorio mediante la fotografia e la videoproduzione. Autore e curatore, nel 2015, dell’exhibition “Expo Landscapes: architetture, testimonianze e tracce di un’esposizione universale”. Nel 2019 è co-autore del progetto fotografico “Fragile Landscapes” nell’ambito di “International Summer School 2019”, Facoltà di architettura del Politecnico di Milano, sede di Piacenza. Nel 2020 cura la regia e la fotografia del cortometraggio “Spazi Illuminati”, presentato al MDDF, raccontando il restauro della Biblioteca Vanoni, opera di Luigi Caccia Dominioni. Nel 2021 con Marco Introini presenta il percorso “Di roccia e d’acciaio, tra natura e artificio”, un’indagine fotografica sulle trasformazioni del patrimonio archeologico industriale nella città di Lecco. A Bergamo, nel 2022 inaugura l’esposizione: “Bergamo paesaggio latente” proponendo una lettura della città durante il lockdown totale del 2020. A Febbraio 2023, da un’idea di Giuseppe Taramelli, propone “Aedificante: cantiere, cultura, persone, futuro”, una testimonianza fotografica sul cantiere e il lavoro in ambito edile per la cura di Angelo Dadda, presso la Fondazione Stelline di Milano. La mostra viene allestita in seguito all’European Culture Center di Venezia in Palazzo Mora durante la 18ma Biennale di Architettura di Venezia.
Un’opera in calcestruzzo, quando ben fatta, è sempre un’emozione. L’architettura attraverso lo sguardo del fotografo Giacomo Albo
Per chi come me ha una formazione da architetto, l’incontro con un edificio fatto in calcestruzzo a vista suscita sempre emozione. Il cemento permette una pulizia nel disegno assolutamente unica dando modo ai progettisti capaci di realizzare opere che esercitano su chi le osserva una propria, particolarissima forma di attrazione. Un fascino magnetico direi.
Prima di dedicarmi alla carriera di fotografo di architettura e interior design, professionalmente parlando sono nato come architetto io stesso, lavorando per oltre un decennio in diversi studi di progettazione, ma la fotografia mi ha accompagnato fin da ragazzo, quando seguivo mio padre nelle gite domenicali in montagna sopra Lecco, dove sono nato. All’epoca per portarmi a casa un “pezzetto” della giornata raccoglievo immagini con una macchina amatoriale e dei rullini per diapositive che negli anni, con l’approfondirsi del mio interesse per la fotografia, ho sostituito con apparecchi sempre più professionali, integrando successivamente la strumentazione con l’uso di droni per le foto aeree degli edifici.
Nei miei scatti alla bellezza dei paesaggi naturali si è andata affiancando gradualmente la bellezza del cemento che oggi è sul podio tra i materiali che prediligo ritrarre, accanto al legno e alla pietra naturale. Anche sulla home page del mio sito questo materiale è protagonista assoluto attraverso immagini realizzate su dettagli di strutture e opere in calcestruzzo.
La personalità del cemento, la sua natura dalle molte sfumature, emerge vigorosa nelle opere di chi lo sa maneggiare. Penso a Casa a San Nazzaro in Canton Ticino dello studio Wespi de Meuron Romeo, distintosi per la qualità e poetica del loro lavoro soprattutto in Svizzera e Italia, che ho fotografato e recentemente apparsa su diverse riviste di settore. Oltre il guscio esterno in calcestruzzo lavato, dall’aspetto ruvido e impenetrabile, si apre un cuore interno morbido che lavorando in purezza con il legno regala una intimità intrigante. Casa a San Nazzaro dichiara in un solo materiale una doppia anima che calamita l’attenzione dello sguardo e apre a un lato conturbante. Un esempio del lavoro che anche altri architetti oggi stanno facendo concentrandosi su di un uso aspro, pulito e al tempo stesso raffinatissimo del calcestruzzo lavorandolo con materiali a esso complementari quali legno e pietra.
Nella sua monoliticità, il cemento è in grado di regalare alle strutture stereometriche una qualità materica e complessiva uniche che personalmente apprezzo e ricerco per i miei scatti.
Nella mia vita la fotografia e l’architettura hanno iniziato a incrociarsi nel periodo dei miei studi al Politecnico e alla fine la prima ha preso il sopravvento sulla seconda divenendo il mio modo espressivo esclusivo, permettendomi di declinare attraverso immagini la mia visione del mondo delle costruzioni e documentarne al contempo lo stato dell’arte.
Per lavoro ho infatti spesso occasione di seguire l’evoluzione dei cantieri, soprattutto nella Milano che in questi anni di perdurante effervescenza post Expo sta mantenendo l’aspetto di laboratorio a cielo aperto per quanto concerne l’architettura. Dopo Expo la Milano dei cantieri ha continuato la sua marcia verso una nuova evoluzione più europea, maggiormente schiusa verso l’esterno, restando città misurata ed elegante qual è la sua cifra distintiva ma aprendo i tuoi famosi giardini segreti a forme di fruizione maggiormente coinvolgenti nei confronti di chi percorre le sue arterie. Il Bosco Verticale di Boeri in questo senso ha certamente avuto il merito di inaugurare un dibattito sul tema degli esterni, intercettando in termini internazionali il gusto per la vita in aree pubbliche ma senza perdere quella predilezione per la sobrietà che Milano ha sempre avuto.
Con i miei scatti ho documentato alcuni dei momenti di questo percorso, fotografando i cantieri della Torre Liberty, di un intervento in Via Orefici a firma Barreca & La Varra, di uno studentato progettato da Carmody and Groarke in zona Bocconi, del Trotto a San Siro, di un intervento di rigenerazione a opera dello studio Lombardini 22 in zona Corvetto e ancora accanto al Bosco Verticale, in via Toqueville, della ristrutturazione per uffici. Solo per citare alcuni esempi.
È difficile vedere oggi interventi sopra le righe, tutti i grandi studi internazionali di architettura che qui hanno deciso di aprire la loro sede italiana, penso ad esempio a Rem Koolhaas o David Chipperfield, stanno dimostrando come Milano sia un modello di città degno di essere indagato. Un modello che persegue una qualità non eccentrica e che intercettando l’esigenza di una rigenerazione che non snaturi l’esistente favorisce gli interventi che accompagnano naturalmente il percorso evolutivo urbano. Come nel caso della Torre Velasca, un elemento distintivo di Milano acquistato da Hines e di cui sto documentando in questo periodo la rinascita ad opera di Asti Architetti.
Il lavoro è volto a rendere visibile un collegamento tra l’intervento di riqualificazione e il contesto, in questo caso la Piazza Velasca e la via Albricci vicino all’Università Statale, cercando un dialogo permanente con il luogo in cui la torre si inserisce.
Per Torre Velasca ho usato anche la fotografia con i droni scattando spesso ad altezza baricentrica dall’edificio, mi piace sottolineare sovente che questa tecnologia ci consenta punti di vista inconsueti, alzandosi in volo anche pochi metri, senza dover andare in “paradiso” ovvero a quote esageratamente elevate. Di questa tecnologia preferisco un uso discreto, che mi consenta un racconto coeso al territorio e all’architettura, descrivendo lo spazio da un punto di visuale alternativo ma senza eccessi. In questo senso non so ancora se il drone riuscirà a sostituire una veduta con il cavalletto ma certo consente quella misura che non ti danno né l’elicottero né il vicino con la finestra di fronte all’edificio che devi ritrarre.
Quando fotografo cantieri mi piace far emergere ogni fase di lavorazione come un paesaggio diverso, che cambia radicalmente. Dopo lo strip out, per esempio, ovvero la demolizione selettiva di tutti gli elementi non strutturali di un edificio, ritraggo lo scheletro risultante un istante prima che il cantiere cambi, diventando visivamente un altro luogo. Questo paesaggio così dinamico, internamente ed esternamente al cantiere, è quello che mi preme raccontare. Le sue interazioni e cambiamenti.
In questo senso il calcestruzzo stesso in sé è un paesaggio che cambia continuamente forma. Dal momento in cui la materia prima esce dalle cave a quando viene preparata la miscela che molle arriva in cantiere ed entra nei casseri che lo abbracciano e ne cambiano la forma, plasmandolo in fogge e figure che nessun altro materiale è in grado di realizzare. Dischiudendo agli occhi di chi ne fruisce scenari unici e sorprendenti.
Spesso faccio sopralluoghi in diversi mesi, alla ricerca dei caratteri più originali degli stadi di lavorazione, seguendo i momenti più densi, curiosi e significativi delle operazioni da cui ricavare fotografie e video. Per me si tratta di tradurre in immagini un racconto che deve essere diretto e chiaro. Da architetto, una volta che ho capito la soluzione progettuale adottata per l’opera che sto fotografando è l’architettura stessa che mi suggerisce dove mettere il cavalletto.
Quando fotografo prediligo immagini frontali, come un disegno su di un quaderno, anche se taluni oggetti pretendono invece una vista di scorcio. Per scattare devo capire cosa richieda la facciata e tendenzialmente preferisco la luce mediata a quella diretta che spesso rischia di bruciare lo spazio e le scelte materiche dell’architetto. La mia è una fotografia che tende alla sobrietà, poco ritoccata, dove i colori non occupano lo spazio principale perché colori e luci tenui permettono una intimità maggiore, un ingresso intimo negli ambienti. In pochi scatti si deve evincere l’idea progettuale, la si deve visualizzare chiaramente inserita nel contesto.
In questi ultimi anni la professione mi sta portando verso una linea più autoriale che sto sviluppando esclusivamente in bianco e nero e che scandaglia il paesaggio urbano.
Espressione di questa fase sono le mostre che ho realizzato a partire dal 2021, frutto di anni di ricerche e approfondimento personali iniziati con degli scatti al cantiere Expo di Milano.
La più recente e tuttora in corso è “Aedificante: cantiere, cultura, persone, futuro”, realizzata da un’idea di Giuseppe Taramelli con la curatela di Angelo Dadda, della rivista Platformarchitecture. La mostra, presentata in anteprima a Palazzo delle Stelline a Milano, è visibile fino a novembre a Palazzo Mora a Venezia, nel calendario eventi della Biennale di Architettura 2023 a guida Lesley Lokko.
I 32 scatti che compongono il lavoro, divisioni in 8 capitoli come le fasi che si affrontano quando si fa un progetto, sono il risultato di una selezione ragionata dall’archivio di sei anni di fotografie che ho eseguito nei cantieri di Taramelli srl e servono a portare all’attenzione dell’opinione pubblica la difficoltà di reclutamento di manovalanza qualificata nel settore e soprattutto della necessità che i giovani tornino ad appassionarsi al lavoro edile, comprendendo le complessità della costruzione contemporanea, opera frutto di grandi sacrifici ma di altrettanta gratificazione. Tutta la filiera soffre di questo problema e una mostra fotografia è sembrata la via migliore per porre in evidenza questo problema.
Di questa fase più intima e personale, in cui la fotografia viene usata come vettore per esprimere altri concetti oltre il soggetto ritratto, fanno parte anche altre due mostre. “Paesaggio latente” presentata nel giugno 2022 presso l’ex chiesa della Maddalena a sant’Alessandro in Bergamo, e “Di roccia e d’acciaio – tra natura e artificio” sulla trasformazione post industriale della città di Lecco, realizzata a quattro mani con il fotografo Marco Introini e presentata nel 2021.
“Paesaggio latente” è il racconto della città orobica durante il primo, duro lockdown. Sostenuto dalla rivista IoArch, con cui collaboro da diversi anni e che mi ha pubblicato molti lavori tra cui la già citata casa Wespi de Meuron Romeo, ho potuto fotografare Bergamo per due giorni, compilando un foto-documentario di un paesaggio urbano innaturalmente vuoto, paradossalmente interessato da un tempo atmosferico meraviglioso ma dove l’architettura deserta rendeva plasticamente e in maniera molto più diretta delle parole la percezione di qualcosa che non funzionava, un disorientamento generato dall’assenza totale di movimento. Luoghi solitamente pieni di gente ora privi di vita. Queste circostanze eccezionali hanno aiutato i miei scatti a spiegare la bellezza dell’architettura della città, una magnificenza di cui solitamente non si ha contezza e di cui il mio lavoro ha inteso essere un contributo alla sua scoperta.
Anche nella mostra realizzata a Lecco e frutto di un lavoro durato 11 anni l’architettura è protagonista insieme alla realtà morfologia e geografica prealpina del lecchese. A questo mio lavoro ho avuto l’onore di vedermi affiancato quello di Marco Introini, fotografo di architettura e docente universitario del Politecnico di Milano, a cui avevo sottoposto in anteprima i miei scatti. Introini ha notato la complementarietà con la sua ricerca fotografica sui fiumi della stessa provincia quali forza motrice per l’industria, dalla loro canalizzazione al successivo abbandono. Il suo contributo ha permesso alla mostra di acquistare un doppio registro, diventando un dialogo sul tema della trasformazione post industriale di un territorio scandagliata attraverso due diverse prospettive che si integravano a vicenda portando in scena anche il tema del dopo, con gli scatti delle architetture residenziali costruite in luogo delle fabbriche.
Marco Introini è uno dei rappresentanti più colti della scuola di Gabriele Basilico e tra i più ortodossi nel seguire l’insegnamento di questo gigante della fotografia di architettura che è stato per me una vera folgorazione. Il suo “Ritratti di fabbriche”, il primo sistematico progetto di catalogazione delle realtà industriali milanesi realizzato tra il 1978 e il 1980, è stato fondamentale, illuminante su come si controlla un percorso fotografico e sulla coerenza tra ciò che fai e che farai. Lo conobbi nel 2009, quando mi stavano arrivando i primi incarichi seri, e con lui andammo a fotografare i nuovi padiglioni della Bocconi a firma delle Grafton Architects, architette inglesi vincitrici del Pritzker Prize nel 2020 e responsabili della reazione della Biennale di Architettura a Venezia nel 2018, che erano stati appena ultimati. Quando feci il servizio fotografico su Bergamo cercai il catalogo della sua mostra “Attraversare Bergamo”. Oltre 140 fotografie scattate nel 1998, un lavoro quasi didascalico sul patrimonio architettonico della città voluto dall’Ance, Associazione Nazionale Costruttori Edili.
Il suo lavoro è per me uno scrigno di temi e vedute che ho consultato anche per il lavoro fatto con Introini, recuperando un volume di Basilico sui bacini lombardi, e per “Aedificante”. La bellezza dell’itinerario che ho intrapreso in questo mondo la devo anche a lui.
Penso che il nostro sia un lavoro di continua ricerca, ogni volta che pensi di aver costruito qualcosa trovi i margini per un miglioramento da inseguire. Essere fotografi di architettura vuol dire per me essere testimone di un paesaggio, quello urbano, in evoluzione continua. A volte lenta a volte tumultuosa, sempre sorprendentemente ricco di una meraviglia che attende di essere svelata e portata allo sguardo di chi osserverà il tuo lavoro.