Classe 1987, Alessandro Benetti è architetto e dottorando in Storia dell’architettura contemporanea all’Université Rennes 2 e al Politecnico di Milano. Collabora regolarmente con Domus ed è editor di URBANO Magazine. I suoi articoli sono apparsi sulle principali riviste di settore: Abitare, Area, Interni, Platform Architecture & Design. Ha partecipato a numerose pubblicazioni di architettura contemporanea per i tipi di Hoepli, Quodlibet e Skira. Dal 2014 al 2017 è stato co-curatore con Luca Molinari della galleria SpazioFMG per l’Architettura, a Milano. Dal 2021 è membro del Consiglio Direttivo dell’ANCSA – Associazione Nazionale Centri Storico-Artistici.
Torre Velasca: passato, presente e futuro di una torre iconica in cemento armato
Amatissima o odiatissima, osannata come icona dagli uni e condannata come scempio dagli altri, la milanesissima Torre Velasca del milanesissimo Studio BBPR non smette di far parlare di sé. Torna agli onori della cronaca anche in questa fine del 2024, a più di 60 anni dal suo completamento, grazie alla mostra monografica organizzata al MAXXI di Roma, con la consulenza scientifica di Maria Vittoria Capitanucci e Tullia Iori. Proprio con Iori, storica dell’ingegneria strutturale, parliamo di questa architettura sorprendente, che è anche una delle più notevoli strutture in cemento armato del Novecento italiano.
Tra gli anni Cinquanta e Sessanta l’Italia cresceva e crescevano le sue strutture: gli edifici erano sempre più alti, i ponti sempre più lunghi, le cupole dei palasport sempre più ampie. Come racconterebbe quest’epoca dal punto di vista di una storica dell’ingegneria?
Sono gli anni del Boom economico e anche per la Scuola italiana di Ingegneria sono anni speciali. L’Italia è uscita dalla Seconda guerra mondiale devastata anche nelle infrastrutture: ha perso circa 12 mila ponti tra urbani e extraurbani, ferroviari e stradali, compresi quelli delle prime pionieristiche autostrade. La ricostruzione di emergenza, che ricuce le ferite principali, si conclude nei primi anni Cinquanta, a opera di due generazioni di ingegneri progettisti, che silenziosamente, senza tanti dibattiti e convegni, si mettono a disposizione del Paese e approfondiscono sul campo le loro competenze sul cemento armato ordinario e precompresso.
Grazie anche al piano Marshall, si avvia poi un piano di opere pubbliche che da una parte riguarda le abitazioni (il Piano Ina Casa, che si sviluppa tra il 1949 e il 1963) e dall’altra le autostrade, gli aeroporti, ma anche i palasport per le Olimpiadi di Roma del 1960 o gli spazi espositivi per celebrare Italia ‘61, il centenario dell’unità nazionale. In questo laboratorio a cielo aperto, l’ingegneria italiana ricostruisce anche l’immagine del Paese e le strutture Made in Italy sono lodate in tutto il mondo. In una famosa mostra a New York, nell’estate del 1964, che si intitola Twentieth Century Engineering, le opere dei progettisti italiani – Pier Luigi Nervi, Riccardo Morandi, Silvano Zorzi – ma anche i ponti dell’Autostrada del Sole ancora nemmeno inaugurata, sono prevalenti rispetto a quelle di tutte le altre nazioni.
Il cemento è il materiale della ricostruzione e poi del boom, perché è l’unico di produzione italiana e che non va quindi importato dall’estero. Era dal 1936 che non si poteva più utilizzare in Italia il cemento armato, perché durante il fascismo ne era stato proibito l’uso, nell’ambito della propaganda autarchica seguita alle sanzioni della Società delle Nazioni per l’invasione dell’Etiopia. Alla fine della guerra cadono i divieti e proprio plasmando in modo originale e identitario questo materiale così importante gli ingegneri fanno ripartire il Paese.
La Torre Velasca è spesso lodata (o, al contrario, criticata) per il rapporto che stabilisce con il suo contesto, il centro storico di Milano, sul piano volumetrico e formale. In questo caso, mi piacerebbe chiederle di raccontarci la torre in quanto struttura di cemento armato. Come funziona la Torre Velasca? Quali sono le sue caratteristiche più importanti, notevoli, curiose?
Anche il linguaggio dell’architettura è profondamente influenzato dal lavoro degli ingegneri e uno spiccato strutturalismo caratterizza per esempio i nuovi edifici alti. La Torre Velasca è un simbolo del grattacielo Italian Style, completamente diverso da quello in acciaio e vetro che si diffonde in Nord America. Intanto per la sua struttura, che è in cemento armato. All’inizio viene valutata anche l’ipotesi acciaio, ma i costi del materiale, che andava comprato all’estero, e la difficoltà per le imprese italiane di attrezzare un cantiere con grandi macchine di sollevamento, fa propendere per il cemento, a km 0 e facile da mettere in opera con operai non specializzati. In quegli anni, infatti, il cantiere edile è il principale strumento per combattere la disoccupazione e si cerca di far lavorare più operai possibile.
La struttura in cemento armato della torre, unica e irripetibile, è progettata da Arturo Danusso, uno dei maestri indiscussi della Scuola italiana di ingegneria. La torre si alza per i primi sessanta metri con un fusto semplice, a base rettangolare; poi si allarga di tre metri su tutto il perimetro e continua così per altri trenta metri. I pilastri, che innervano le facciate si staccano dal fusto e si allargano per andare a sostenere il volume espanso superiore: diventano veri e proprio puntoni di supporto. Questo movimento è una notevole complicazione dal punto di vista statico: il corpo superiore, infatti, per effetto del suo peso, tende a far spanciare verso l’esterno i puntoni che di conseguenza vanno trattenuti, con briglie che li legano alla quota dell’ampliamento, il 18° piano. Il solaio di questo piano non è quindi uguale agli altri ma è attraversato da un fitto e sinuoso fascio di tondini di armatura che funzionano come catene, legando ogni puntone al suo omologo sul lato opposto. Il solaio del 15° piano, al contrario, dovendo sopportare le forti sollecitazioni di compressione trasmesse dai puntoni, è più spesso degli altri e pieno di cemento. Pilastri, puntoni e briglie sono esibiti in bella vista lassù, nel cielo, e contribuiscono all’immagine iconica della torre: il cemento armato ha il ruolo di primadonna nella definizione del linguaggio architettonico.
Poche settimane fa ha inaugurato al MAXXI di Roma una mostra monografica sulla Torre Velasca, basata sui materiali conservati negli archivi del museo e di cui lei è consulente scientifica. Quali sono i documenti più utili per studiare la struttura della Torre Velasca e, in particolare, l’utilizzo dei cementi dell’allora Italcementi per la sua realizzazione?
La mostra è stata possibile grazie all’Archivio dello Studio BBPR che è entrato nelle collezioni del MAXXI Architettura nel 2021, a seguito di contratto di comodato a titolo gratuito da parte della famiglia Belgiojoso. Si tratta di un archivio enorme, con 885 progetti e tanto altro materiale relativo anche all’attività didattica e culturale dei quattro progettisti. Il bravissimo gruppo di lavoro del Centro Archivi Architettura del MAXXI ha riordinato tutto il fondo in tempi rapidissimi e in occasione dell’inaugurazione della mostra ha prodotto anche l’inventario. I materiali relativi alla Torre Velasca sono numerosissimi. Dal punto di vista strutturale, l’aspetto più interessante e inedito, che si può seguire nei disegni esposti in mostra, è la trasformazione della fascia tra il 15° e il 18° piano, cioè dove tutto succede per raggiungere la stabilità della torre. Dai primi schizzi alla versione realizzata ci sono decine di passaggi, documentati nell’archivio anche dai resoconti delle riunioni con il committente: i puntoni via via diventano più verticali, coinvolgendo più piani; ruotano sugli angoli come i beccatelli delle torri medievali, per raggiungere più facilmente il grande sbalzo diagonale; si piegano a ginocchio e vengono agganciati dalle briglie, in origine nascoste nel piano del solaio. Tutto questo lavorio progettuale è reso evidente da una serie di disegni a china su carta lucida, in cui la lametta ha grattato via l’inchiostro ma le soluzioni, anche se cancellate, si intuiscono sovrapposte come in un palinsesto medievale.
Naturalmente in mostra l’archivio degli architetti è stato integrato anche con altre fonti, per esempio con i materiali provenienti dall’Archivio Ismes, l’Istituto Modelli e Strutture di Bergamo fondato proprio da Danusso con le più importanti società di costruzione e con l’allora Italcementi. L’Ismes aveva condotto prove su modello sia per il nucleo irrigidente interno, il volume scatolare nel cuore dell’edificio con pareti di cemento armato, che funziona da controvento e accoglie le scale e gli ascensori, sia sulla geometria ottimizzata del pilastro di facciata: prove documentate da interessanti report. L’Archivio Centrale dello Stato, invece, ha messo a disposizione le foto del cantiere, conservate nel fondo della Sogene, l’impresa di costruzione: tutte attentamente datate, hanno consentito di ricostruire la vertiginosa ascesa della torre, in appena 9 mesi e 20 giorni.
In una conferenza del 15 maggio 1957, pubblicata dal Collegio degli Ingegneri di Milano e presente nel fondo del MAXXI, Antonio Cecchi, il direttore tecnico della Sogene, elenca tutte le ditte che hanno collaborato all’opera: nella lista è indicato che l’allora Italcementi di Bergamo ha fornito il cemento.
Com’è strutturata la mostra del MAXXI? Quali sono i contenuti più interessanti e inediti? Perché è utile parlare oggi della Torre Velasca?
La mostra è ricchissima di materiali originali e merita certamente una visita. A completare il consueto sforzo di rendere comprensibile l’opera di architettura e ingegneria anche a visitatori non del settore, in questa occasione sono stati proposti anche due percorsi innovativi.
Il primo è Velasca Virtual, cioè una serie di esperienze di realtà aumentata e realtà virtuale che consentono di conoscere la torre in modo nuovo, coinvolgente e anche “vertiginoso”. Si possono provare, assistiti dal personale di sala, con un visore o con tablet.
Il secondo è il Velasca Touch ed è stato reso possibile dal progetto di accessibilità Maxxipertutti, finanziato da NextgenerationEU. Si tratta di una serie di modelli tattili progettati per consentire la comprensione del comportamento statico della torre, in particolare dei puntoni e dei solai speciali del 15° e 18° piano. I modelli sono inclusivi, nel senso che sono stati pensati per tutti, anche per le persone con disabilità visiva, e sono stati messi a punto proprio grazie alla collaborazione con un apposito gruppo di lavoro che comprende persone ipovedenti e non vedenti, oltre a tiflologhe, un modellista particolarmente bravo e professioniste del MAXXI esperte in questo tipo di progetti. Nelle mostre siamo ormai abituati a vedere i pannelli scritti in braille e le trasposizioni a rilievo dei disegni, ma in questo caso la sfida inclusiva è molto più avanzata. La soluzione tattile 3D è stata utilizzata non solo per far capire la forma dell’edificio ma anche le sollecitazioni principali (la trazione nel solaio del 18° piano e la compressione in quello del 15°, oltre ai movimenti possibili della torre al vento), che devono essere percepite solo attraverso le mani, grazie ai materiali utilizzati e alle lavorazioni cui sono stati sottoposti. I modelli hanno anche l’arduo compito di resistere, almeno per tutto il tempo della mostra, a strapazzamenti da parte di tutti i fruitori.
La mostra corrisponde con la conclusione del cantiere di restauro-ristrutturazione dell’edificio. Quali sono le problematiche più comuni che si riscontrano oggi nelle strutture in cemento armato di quell’epoca? Quali sono le sfide per chi si occupa del loro recupero? Cosa ci sa dire, in particolare, di questo cantiere?
Il restauro della torre, protetta da un vincolo della soprintendenza, è stato condotto dalla proprietà, la società immobiliare Hines, con un progetto elaborato da Studio Asti, per la parte architettonica, e lo Studio Ceas per le strutture e le facciate. È molto interessante come il restauro abbia dimostrato l’eccellente progettazione strutturale iniziale da parte di Danusso. Le indagini, infatti, hanno rivelato un quadro fessurativo irrisorio e gli interventi, importanti dal punto di vista degli intonaci e delle altre finiture, sono stati ben poco invasivi per le strutture, grazie a una accurata e intelligente verifica dell’esistente condotta dai bravi ingegneri di Ceas, studio tra i cui fondatori ci sono proprio allievi di Danusso. Per rispettare le attuali normative antisismiche, che invece nel 1957 non coinvolgevano Milano nel rischio sismico, il solaio del 18° piano è stato rinforzato con fibre di carbonio, in modo invisibile, seguendo il tracciato delle armature esistenti. I pilastri, così come i pannelli di facciata, sempre a base cementizia, sono stati risanati e protetti facilmente con interventi puntuali. E sempre grazie al minimo ingombro della struttura, è stato possibile un riadattamento distributivo moderno degli spazi interni. Insomma, la Torre Velasca è l’emblema dell’edificio sostenibile: quello che a distanza di quasi 70 anni dalla costruzione, è ancora in grado di funzionare efficacemente. L’edificio più sostenibile, d’altronde, è sempre quello che già esiste, che non deve essere demolito e ricostruito: e qui la durabilità del cemento armato garantisce ancora tanti anni di vita.
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