Giornalista professionista freelance, è laureata in Filosofia Teoretica all’Università Statale di Milano. Dopo aver esordito con collaborazioni per il Sole24Ore (Casa24) e il mensile Elle, attualmente scrive on&off line per testate nazionali ed estere centrando la sua indagine su design e architettura con particolare attenzione alla sostenibilità, Nuovo Umanesimo ed economia circolare. Pur viaggiando molto mantiene casa e cuore a Milano, la capitale del design che ha eletto a propria patria dopo aver vissuto a Londra per qualche tempo.
È originario della bergamasca ma vive tra Milano e New York, che considera la sua seconda casa, il luogo dove riconnettersi con l’energia unica della metropoli culla del Graffitismo (il Movimento artistico che è nato alla fine del 1960 e vede in Keith Haring uno degli esponenti più noti). È Luca Font, il designer che ha immaginato le grafiche per la maglietta Estate 2022 di Italcementi, ha realizzato le due versioni, maschile e femminile, della t-shirt per la competizione Magut Race di questo fine luglio a Selvino e che firmerà il calendario Italcementi per il 2023.
Se questa estate sarete in Sicilia per le vacanze, è fortemente consigliato fare una deviazione dai percorsi turistici classici per vedere, nella regione montuosa settentrionale alle spalle di Palermo, la sua ultima opera di muralismo site specific conclusa a giugno nel Comune di San Mauro Castelverde, in provincia del capoluogo siciliano. Una prova del suo stile dalla personalità riconoscibile e forte insieme perché, come dice lui stesso, «Se decido di dire qualcosa, allora devono sentirlo più persone possibili». Il segno grafico distintivo è quello che in Italcementi hanno già imparato a riconoscere dalle magliette. Essenziale e sintetico, che utilizza linee sicure e volumi importanti uniti a colori primari stesi a campiture e giustapposti per raccontare, in questo caso, elementi atavici della cultura umana.
Giorni di un futuro passato, questo il titolo della realizzazione di Font, che si estende su di una superficie di settanta metri in lunghezza e quattro metri in altezza ed è stata realizzata nell’ambito di “I Art Madonie”, una iniziativa di arte pubblica rigenerativa ispirata al patrimonio culturale immateriale del territorio che ha coinvolto 100 artisti di street art in 18 comuni nell’area delle Madonie. Protagonisti sono personaggi e simboli della tradizione sacra e folkloristica della zona nord della Sicilia, uomini e allegorie organizzati come tredici stazioni di una Via Crucis laica che recuperano elementi propri della regione tra caratteristiche geografiche e culturali. Cicli ancestrali del raccolto e della natura connessi con figure storiche e mitiche.
«Fare murales per me è tornare alle origini del muralismo, portare l’arte alla dimensione pubblica e fruibile, visibile e condivisa ma gratuita. Né acquistabile né vendibile. È riconnettermi ai miei esordi, quando ancora adolescente ho iniziato a frequentare i gruppi della cosiddetta “sottocultura” anni ’90 che negli anni 2000 è stata assorbita nel main stream. Quella degli skaters, con il loro abbigliamento street style anticonformista, e dei graffitari che realizzavano le prime opere sui muri suscitando ondate di protesta negli stessi cittadini che oggi grazie alle istallazioni di Gucci e Prada a Milano, per citare qualche esempio noto, hanno imparato ad apprezzarne il valore».
A parlare è il writer, artista e tatuatore Luca Font che a quelle sue giovanili uscite corsare ora riconosce il merito di essere state anche le prime, inconsapevoli all’epoca, tappe della formazione del suo gusto personale. «È stato allora che ho iniziato a guardare la città da un punto di vista diverso, eccentrico rispetto al comune modo di vivere il contesto urbano. Quando vai in skate o fai graffiti osservi le forme dei palazzi, le facciate delle case e persino i gradini come superfici. Allora è iniziata la mia passione per il Brutalismo (la corrente architettonica che si sviluppa nel secondo Dopoguerra con edifici massicci, forme scultoree e materiali crudi ndr), i volumi statuari di cemento e le architetture di tipo sovietico. Quello che per molti all’epoca era “brutto” rispetto al gusto decorativo dominante, per me risultava affascinante, in sintonia con la mia creatività. Penso al complesso delle “Terrazze Fiorite” edificato a Bergamo, un esempio di utopia architettonica con enormi spazi vuoti disegnati da colonnati in cemento altissimi. Geniale»
Quando hai capito che volevi fare questo nella vita?
«Non ho mai pensato, quando ho iniziato a fare disegni, che avrei fatto l’artista per vivere. È accaduto tutto in modo naturale e non programmato, risultato di una serie di esperienze da autodidatta iniziate fin da giovanissimo quando per passione, e non perché pensavo di doverne fare la mia professione, mi sono avvicinato al graffitismo. Quando ho cominciato non c’erano internet o i social per farsi ispirare, sono partito comprando riviste di settore, seguendo il passaparola e guardando i lavori dei miei amici dell’epoca, di poco più grandi di me, che facevano graffiti a partire dai lavori visti durante viaggi fatti magari a Londra o Amsterdam. Noi in Italia abbiamo iniziato a fare graffiti più tardi. La prima vera svolta in questo senso è stata la decisione di fare il tatuatore. Dopo essermi tatuato io stesso ho preso a disegnare tatuaggi e ho finito per trasformare il disegno, mia passione di sempre, in lavoro. Qualcosa su cui puntare per vivere. In dieci anni ho affinato il mio stile, disegnando ininterrottamente e scartando via via le mode del momento come il giapponismo, il tatuaggio americano e quello tribale ed andando sempre più a semplificare il tratto, ripulendo il mio stile da un decorativismo che non mi apparteneva.
Stavo cercando un segno che mi permettesse di essere visibile, riconoscibile secondo uno stile che risuonasse per me. Non ho mai inseguito le mode passeggere. Se cerchi di compiacere il tuo pubblico passerai il tuo tempo a inseguire le onde di ciò che “va” in quel momento. Non fa per me. Io sono cresciuto con illustrazioni di videogiochi e tavole da skate, il mio panorama culturale era pieno di architetture, volumi netti e ben definiti. A me piacciono i blocchi di cemento, il Brutalismo, il Modernismo americano, cubico e dinamico insieme, e il Secondo Futurismo. Ho riportato tutto questo all’interno dei miei disegni, enfatizzandolo e rendendomi così riconoscibile per il mio pubblico. Cercavo il mio spazio».
Quanto il mestiere del tatuatore ha influenzato il tuo stile?
«Quando tatui sai che ciò che disegni sulla pelle deve rimanere a lungo, tendenzialmente per tutta la vita di chi si fa tatuare. Quindi scegli colori e forme che si mantengano il più possibile, ovvero che non si cancellino facilmente e nel contempo non vengano a noia di chi li indossa. Che invecchino bene insomma.
Nelle mie grafiche io lavoro sulla sintesi visiva, non sono mai realistico o descrittivo ma piuttosto sintetico e simbolico. Questo approccio l’ho affinato certamente anche grazie al lavoro come tatuatore. Dai tatuaggi in particolare ho ereditato la rimozione dei dettagli e la semplificazione. Perché le grafie su pelle rimangano leggibili, infatti, non possono essere troppo dettagliate né sfumate. Quindi ho imparato ad agire per sottrazione, togliendo ciò che mi sembrava inessenziale al messaggio, asciugando il disegno e accostando a questo colori in grado di assecondare la mia tendenza alla sobrietà. Contemporaneamente ho innestato l’illustrazione contemporanea, lontana dal tatuaggio vecchia scuola che non sentivo come mio, e ho importato i linguaggi che mi piacevano: i volumi dell’architettura e i colori del Futurismo».
Poi c’è stata la svolta e ti sei avvicinato alla grafica
«Esatto. Una volta messo a fuoco il mio timbro espressivo ho cercato di svilupparlo su tutti i media andando oltre il tatuaggio, verso altri supporti e superfici. È così che ho fatto evolvere ulteriormente il mio stile andando verso la grafica e nel 2014, invitato a dipingere dalla Fondazione Casa Testori alle porte di Milano, sono stato notato dall’art director di IL, il magazine di cultura del Sole 24 Ore. Da allora ho lavorato prima per il gruppo di viale Monte Rosa e ora per Robinson, l’inserto culturale della domenica di Repubblica, che pubblica regolarmente le mie grafiche. Come illustratore ho oggi molte collaborazioni per cover e illustro anche su altre testate ma ogni lavoro a cui mi approccio, che siano tatuaggi, copertine di riviste, quadri o murales, lo considero una espressione individuale e autoriale. Non pop, da cultura di massa, perché non amo appiattirmi sul gusto del momento. Mi sono sempre mosso nella direzione opposta».
Come hai costruito il lavoro per Italcementi?
«L’incontro con Italcementi è stato per me una sfida davvero interessante. Mi sono posto l’obiettivo di far vedere un settore tradizionale e classico come quello del cemento e delle costruzioni attraverso i miei occhi di artista e appassionato di Brutalismo e architettura razionalista. Ho voluto portare in un segmento di mercato che non ne è provvisto naturalmente, quel concetto di coolness (traducibile con la parola “figaggine”, definita dal vocabolario Garzanti come caratteristica, nel gergo giovanile, di chi o di ciò che piace, si fa ammirare, è alla moda) che è invece connaturato in settori merceologici quali la moda e il lusso.
Per ideare le grafiche Italcementi ho tratto ispirazione dai bellissimi manifesti realizzati da Fortunato Depero per l’industria dell’Italia della prima metà del Novecento, quando ancora non esistevano gli illustratori commerciali ma erano i pittori e gli artisti a prestare il loro immenso estro a questo ambito. Oltre alla famosa e fortunata collaborazione con la Campari e il liquore Strega Depero, che è stato artista italiano rappresentante del Secondo Futurismo, pittore, scultore, designer e illustratore, aveva lavorato anche per l’industria dei mattoni refrattari dell’ingegner Verzocchi portando la sua genialità in lavori di comunicazione commerciale che grazie a lui sono risultati vibranti di forza espressiva e dinamicità. Esempli di comunicazione del brand che dimostrano come anche marchi non dotati naturalmente di fascino non si devono per forza arenare nella comunicazione business o istituzionale di servizio ma possono ambire a essere visivamente belli, artistici.
Questo è il percorso che ho deciso di intraprendere anche io con Italcementi: aprire all’opportunità di guardare le cose con occhio diverso. Non per forza impossibilitato al bello, come solitamente si pensa per la comunicazione d’impresa tradizionale, che spesso rischia di comunicare staticità con un approccio sorpassato dai tempi. Se si vuole che le persone ci vedano come parte del loro mondo, sono convinto infatti che si debba fare in modo di comunicare con loro nello stesso modo in cui loro vivono. Allora il bello può svilupparsi anche nel modo in cui comunichi, un investimento mentale che restituisce estetica e grazia dove non te lo aspetteresti.
Per la maglietta Italcementi, nella pratica, ho costruito il progetto partendo dalla palette di colori istituzionali del brand e facendo confluire intorno a questi la grafica e i temi a me cari. Ho quindi sviluppato la tavolozza cromatica caratterizzante il progetto e immaginato i volumi scultorei, riconducibili all’architettura brutalista, che avrebbero animato lo spazio centrale della t-shirt. Come per i tatuaggi, ho scelto linee forti e colori primari come il blu e il rosso, perché invecchiano meglio e restano più leggibili. Questi colori sono gli stessi che uso in tutto ciò che faccio, compresi quadri e murales, perché sono perfettamente adatti ad accompagnare le forme geometriche con cui compongo le mie immagini. Uso linee aggressive con colori altrettanto impetuosi perché con i miei lavori voglio sempre attirare l’attenzione. Per me è fondamentale questo punto, eredità sicuramente della mia vita da writer quando dipingevo i muri e il mio intento era che venissero visti, letti e ricordati. Ho un approccio personale deciso, quando faccio qualcosa non sono gentile con l’occhio di chi osserva il mio lavoro. Voglio che resti ben impresso nella mente. Non sono uno che entra in punta di piedi».
Quando gli si chiede dove vedere qualcosa di suo Luca Font risponde invitando a guardarsi intorno perché «può essere che lo incroci senza saperlo». Per coloro che preferiscono andare sul sicuro, oltre che nel già citato entroterra palermitano, segnaliamo un altro lavoro di mille metri quadrati in realizzazione a Milano, zona Parco Ravizza vicino alla Bocconi, che sarà visibile da fine estate e i murales a Montesilvano (Pescara) e San Donà di Piave. Per i più pigri c’è il suo sito ufficiale lucafont.com e il profilo Instagram.