Laureato presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, dove insegna progettazione architettonica dal 2008 al 2011. Dal 1999 è autore di progetti di architettura, fotografia e comunicazione visiva per aziende e istituzioni pubbliche e private, ricevendo premi a concorsi nazionali e internazionali. Nel 2002 fonda new landscapes (<a href="http://www.newlandscapes.org/">www.newlandscapes.org</a>), studio di progettazione all’interno del quale sono state condotti progetti e ricerche sul rapporto tra l’uomo e l’ambiente, sulla percezione e la valorizzazione dell’immagine e dell’identità del paesaggio contemporaneo e sulla promozione di nuove forme di conoscenza e partecipazione. Dal 2016 è direttore della rivista di architettura e paesaggio Ark. È autore di oltre 50 pubblicazioni, tra libri, saggi e articoli specialistici sull’architettura, il paesaggio e la fotografia.
Il Grattacielo Pirelli affacciato su piazza Duca d’Aosta è uno degli emblemi storici di grande pregio di Milano ed espressione del dinamismo della grande imprenditoria manifatturiera lombarda e della prima ondata di internazionalizzazione dell’economia italiana. Italcementi collaborò intensamente allo sviluppo dell’edificio sia attraverso la fornitura di un cemento particolarmente performante sia attraverso la definizione del mix-design del calcestruzzo, studiato appositamente nei laboratori di Bergamo.
Confini
Quanto era grande Milano vista dal belvedere della Torre Pirelli all’indomani della sua inaugurazione? Era una “città infinita” come oggi la conosciamo? A descrivere la città dal nuovo osservatorio, elevato sulla sommità del grattacielo più alto d’Italia (124 metri), più noto come Grattacielo Pirelli e soprannominato dalla gente Pirellone, è lo scrittore Dino Buzzati nelle pagine della rivista che la Pirelli allora editava, rivolgendosi, con uno spirito che oggi definiremmo rinascimentale, tanto agli ingegneri così come a un pubblico ampio, sensibile alle sfide del costruire così come alla bellezza del Belpaese e dei suoi paesaggi, che proprio la Pirelli sollecitava a esplorare viaggiando, è superfluo dirlo, a bordo dell’automobile.
La sorpresa è l’emozione che, nel 1970, Buzzati chiama in causa nel vedere Milano mutare, oltre la densa urbanizzazione, in una pianura agricola di cui erano riconoscibili segni e presenze. È l’ardito grattacielo in calcestruzzo armato che Gio Ponti, Antonio Fornaroli, Alberto Rosselli con Giuseppe Valtolina, Egidio Dell’Orto, Pier Luigi Nervi e Arturo Danusso completano nel 1960 a offrire questa inedita percezione, a inventare nuovamente una “città finita” tanto inconsueta all’occhio di oggi. Una città come una “forma finita” – per usare le parole dello stesso Ponti –, esattamente come lo era il grattacielo voluto dall’azienda, così originale da diventare un unicum in virtù della sua forma conclusa, “finita” appunto, come una scultura, come un’opera d’arte di dimensioni gigantesche.
La Torre Pirelli individua un nuovo landmark, secondo al Grattacielo di Milano inaugurato non lontano, in Piazza della Repubblica, sei anni prima. Segno concepito per essere visto ma soprattutto per vedere, per innanzarsi oltre la nebbia invernale, per fronteggiare nubi cariche di pioggia, fulmini e venti di burrasca provenienti dalle Alpi. In una città così manchevole di natura quale è Milano, le torri che andavano sorgendo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del XX secolo sono strumenti d’osservazione privilegiati, offrono visuali prima impensabili, le loro stanze sono santuari laici della civiltà della macchina.
Densità
La Torre Pirelli sorge tra il 1953 e il 1960, nel breve volgere d’anni in cui si coagulano l’anelito alla crescita infinita e alla concezione di una città iper-densa, governata dai principi della razionalità: sociale, urbanistica, architettonica. Sociale perché è una società industrializzata a porsi come paradigma, modulata sull’efficienza delle relazioni e sull’espansione delle opportunità di consumo. Urbanistica perché è la città come “valore urbano” a guidare le azioni, unico modello praticabile capace, in virtù della sua logicità, di risolvere il conflitto tra Homo Sapiens e la biosfera, tra “grande numero” e risorse disponibili. Architettonica perché è l’efficienza sottesa al progetto moderno a offrire le possibilità di conciliare costi e benefici.
È in questa prospettiva che vanno letti i grandi cantieri di edifici a torre che a Milano concorreranno a interrompere la continuità di una città ancora ottocentesca, massiva, fatta di monumentali quanto affinatissime cortine neoclassiche di granito, Ceppo dell’Adda e serizzo.
Nel 1954 è ultimato il Grattacielo di Milano, alto 116 metri per 31 piani e noto anche con il nome di Torre Breda, progettato da Luigi Mattioni, Eugenio ed Ermenegildo Soncini. È ancora oggi il più elegante edificio alto di Milano, rappresentativo tanto di una fede nella costruzione seriale, modulare e idealmente infinita, quanto di una composta impaginazione degli alzati e di una qualità spaziale delle residenze.
Nel 1957 lo Studio BBPR completa su incarico della società Ri.C.E. (Ricostruzione Comparti Edilizi) la Torre Velasca, alta 106 metri. Definita dal critico di architettura britannico Rayner Banham “la ritirata italiana dall’architettura moderna” rappresenta la più significativa e originale interpretazione italiana e “milanese” del grattacielo, una deliberata invenzione formale e tipologica rispetto agli imperativi omologanti dell’International Style.
Nel 1959 è ultimata la Torre GalFa, progettata dall’architetto Melchiorre Bega e definita da un razionale curtain wall alto 109 metri. Nel 1960 è nuovamente Luigi Mattioni, con la Torre Turati, alta 75 metri, a confrontarsi con la dismisura del grattacielo.
Fin qui le opere coeve alla Torre Pirelli. Nel decennio successivo si innalzeranno, nel 1966, la Torre Servizi Tecnici Comunali, alta 90 metri, su progetto degli architetti Renato Bazzoni, Luigi Fratino, Vittorio Gandolfi, Aldo Putelli, parte dell’incompiuto “Centro Direzionale” e, nel 1968, la Torre Turati di Giovanni Muzio, di 75 metri in elevazione, che condividerà, benché con minor slancio, la dilatazione della pianta al crescere dei piani inaugurata dalla Torre Velasca di BBPR.
Dopo il 1968 la corsa verso l’altezza si interrompe. Si dovranno attendere gli anni Novanta del ‘900 per assistere a una sua ripresa con l’edificazione delle Torri Garibaldi nel 1992 e, dal quel momento in poi, di edifici sempre più ordinari e allineati agli skyline delle metropoli globali e di una “città generica” descritta dall’architetto Rem Koolhaas, avviata a una inesorabile indifferenza alla storia dei luoghi.
Temerarietà
In luogo della storica sede che aveva trasferito alla Bicocca dal 1907, la celebre società multinazionale produttrice di articoli in gomma elastica decide di destinare l’area sul margine Sud-Ovest della Piazza Duca d’Aosta, adiacente alla stazione Centrale, all’edificazione di un nuovo centro direzionale. Inizialmente sono chiamati ad assumere il ruolo di progettisti gli architetti Giuseppe Valtolina e Egidio Dell’Orto che invitano l’architetto Gio Ponti per l’incarico principale. Ponti coinvolge a sua volta l’architetto Alberto Rosselli e l’ingegnere Antonio Fornaroli, con i quali condivide lo studio milanese, e gli ingegneri Pier Luigi Nervi e Arturo Danusso.
Il progetto, nel suo libro più noto, Amate l’architettura, è sinteticamente raffigurato da Ponti attraverso pochi disegni e diagrammi che ne riassumono il senso e le idealità sottese. Nel primo, due coppie di linee parallele sono spezzate e deformate a formare la singolarissima forma lenticolare assunta dalla torre. Forma che il fotografo Paolo Monti riconoscerà nella facciata di vetro da poco ultimata e che sarà messa a confronto nelle pubblicità dell’epoca con la geometria fortemente grafica dello pneumatico Cinturato. Nel secondo diagramma in forma di una austera sezione, Ponti evidenzia l’ossatura del grattacielo, costituita da pilastrate che vanno rastremandosi con il progredire dei piani verso l’alto, da uno spessore di due metri alla quota della strada ad appena trenta centimetri a quella del piano più alto, dove ha sede il belevedere. Temina la progressione una copertura a guisa di aerea pensilina, che funge da coronamento ombroso alla torre.
La Torre Pirelli sorge dal sottosuolo, ergendosi da una sorta di cratere artificiale il cui pendio nasconde le centrali impiantistiche e l’auditorio ipogeo per 600 persone. Si eleva sottile tra due vertiginose estremità, affilate come lame, di calcestruzzo armato, cave e ospitanti al loro interno avveniristiche canalizzazioni per la climatizzazione degli interni, oltre a reti energetiche, scale di emergenza e ascensori a prova di fumo. Arditi sono anche i solai, che nella sezione centrale della pianta raggiungono una volata libera di 24 metri. Traguardi raggiunti impiegando estensivamente il calcestruzzo armato gettato in opera con speciali gru ideate per il cantiere.
Nel secondo dopoguerra l’Italia non dispone di una industria siderurgica in grado di fornire una tecnica costruttiva in acciaio che possa offrirsi come alternativa e la ricerca nell’ambito delle costruzioni in cemento è molto avanzata. Ne sono una prova le grandi opere civili e industriali che allora si andavano costruendo: sale per congressi ed esposizioni, auditori, impianti produttivi e, naturalmente, le infrastrutture necessarie ad innervare il paese nel segno di una modernità necessaria. Italcementi fornisce così il calcestruzzo per la Torre Pirelli, sviluppando una miscela cementizia specificamente formulata nei propri laboratori di Bergamo, e l’ISMES, l’Istituto Sperimentale Modelli e Strutture, nato a Bergamo nel 1951 per la ricerca nelle costruzioni sulla base di modelli in scala, costruisce un modello del grattacielo in microcalcestruzzo e alto nove metri, sottoponendolo a sollecitazioni con dispositivi elastici che ne verificano le resistenze ai carichi accidentali. Le previsioni teoriche iniziali vengono corrette e gli spessori delle strutture ridotti.
È lo stesso Pier Luigi Nervi, succeduto a Danusso alla Direzione dell’ISMES, a dare una definizione dell’architettura, nelle pagine che la Pirelli pubblica nel 1951 nell’omonima rivista: «L’architettura: a) è ispirazione poetica. b) Perfetta conoscenza e assoluta padronanza della tecnica costruttiva. c) Indice e frutto della maturità intellettuale dell’ambiente. Il difficile sta nel fondere l’anima del poeta con la scienza ed esperienza del tecnico e ancor più nell’educare l’ambiente alla comprensione dei valori che l’unione del poeta e del tecnico possono creare».
Singolarità di questo edificio è la struttura in calcestruzzo armato che, oltre a essere una assoluta eccezionalità nell’ambito della costruzione di grattacieli, riesce a intepretare la sensibilità compositiva di Gio Ponti in virtù della plasticità di una materia duttile e scultorea, coerente con il principio della “forma finita” dell’architettura.
Ecosistema
La Torre Pirelli è un caso esemplare di una precisa idea di città, modulata sui principi della razionalità e della fede nel progresso tecnico, che oggi si presta a nuove letture e interpretazioni. Immaginare e governare i processi e le forme della concentrazione urbana è un tratto distintivo dell’urbanistica dell’Occidente, oscillante tra gli estremi di una città ora rarefatta ora compatta. Condizione indispensabile per produrre insediamenti vitali è la densità: di servizi, di opportunità di lavoro, di occasioni di vivere relazioni significative. Una densità accessibile a una mescolanza di residenti e utilizzatori di diverse estrazioni. Alla costituzione di insiemi sociali densi e vitali concorre la costruzione in altezza, di cui il grattacielo è l’espressione più radicale. Città orizzontali e verticali intrecciate tra loro, in cui si alternano punti a elevata energia sociale – come nelle Scienze della Terra sono gli hotspots, punti caldi da cui originano le forze telluriche e rigenerative del pianeta –, con aree più distese e rarefatte ma pure sempre innervate da frequentate strade commerciali, laboratori, officine, orti e giardini comunitari, studi professionali, agenzie frammiste alle residenze.
Se il modello lecorbusiano della Ville contemporaine de trois millions d’habitants (1922) scindeva i problema urbano in domini chiaramente distinti – la torre da un lato, la Natura dall’altro – senza profittare della loro interdipendenza e delle terre di mezzo situate tra i due estremi, la città contemporanea è chiamata a ridefinire i propri assunti fondativi su una combinazione tra le migliori soluzioni disponibili: la città veticale e la città-giardino, la riabilitazione delle vie d’acqua, la mobilità leggera a energia muscolare. La concentrazione e la densità si accordano senza sforzi apparenti con la rarefazione e con la razionalità di un progetto architettonico moderno e accessibile alle popolazioni più diverse, che possono così sviluppare una capacità di autosufficienza proprio in ragione della prossimità e delle reti di vicinato che una città densa può offrire.
Rinascenza
La struttura che innervava la Torre Pirelli e si sviluppava come un albero impiegando una quantità sempre minore di materia per sostenersi e resistere alle sollecitazioni, può tornare a essere un modello di razionalità costruttiva e di sostenibilità. Termini continuamente fraintesi rispetto ai quali si avverte il bisogno ogni volta di fare chiarezza. Nuove Torri Pirelli possono allora essere concepite, provviste di apparati radicali che affondano nel sottosuolo di ecosistemi naturali, che si avvicendano a vie d’acqua e corridoi ecologici con cui scambiare ossigeno, ombra e ventilazione naturale, frutta e ortaggi prodotti localmente. Non più singole emergenze architettoniche ma sistemi di ecosistemi, artificiali e naturali che funzionano come approdi necessari a generare microclimi abitabili e habitat per centinaia di specie viventi. Da un lato l’architettura come infrastruttura minerale, come sistema flessibile e durevole e non come messinscena che nel mimare foreste lussureggianti genera irrazionali costi di gestione. Dall’altro l’intelligenza di un progetto razionale che si misura nella sua economia, nella sua riduzione dei costi di costruzione e manutenzione, nell’offrire una possibilità di abitare a comunità senza distinzioni di censo.
La Rinascenza che caratterizzò il XV secolo fu un clima di generale rinnovamento che Leon Battista Alberti associava alla riapertura degli acquedotti romani. Se sono le infrastrutture a determinare la salute di una società, se è la razionalità delle sue reti a determinarne la salubrità e la prosperità, forse la rinascita di una città potrebbe avere inizio, oltre che dalla corsa verso l’alto, dalle sue reti, come quel Naviglio della Martesana a cui la Torre Pirelli si allineava e che i suoi impiegati e dirigenti potevano riconoscere ancora distintamente nella città al piano.