Veronica Fermani si laurea in Editoria multimediale e nuove professioni dell'informazione all'Università di Roma "Sapienza". Giornalista e content creator, ha maturato esperienze nel settore dei media on line e della comunicazione istituzionale. Si occupa di contenuti editoriali e multimediali per la società di comunicazione LOV.
«Le università tornino luoghi di vera formazione, non fabbriche di lauree». Intervista a Francesca Bartera, Direttore Tecnico – Associato VP&Green
Corrono le epoche, mutano gli scenari, ma, nell’economia italiana, tra le tendenze tetragone del mondo del lavoro c’è l’elevata richiesta di ingegneri. La curva della domanda, in questo senso, appare in costante ascesa con un fabbisogno medio, ogni sei mesi circa, di oltre diciottomila figure dotate di solide basi scientifiche e in grado di contemperare competenze fisico-matematiche e abilità economico-gestionali. A risultare decisiva, nel superamento di selezioni spesso severe, è una diade di requisiti imprescindibili: la predisposizione alle soluzioni innovative e l’abitudine a ideare, progettare e costruire anche oltre confine. Due caratteristiche che non mancano a Francesca Bartera, Direttore Tecnico – Associato, responsabile del polo Strutture della VP&Green, studio tecnico francese altamente specializzato in strutture e facciate.
Che ruolo ritiene abbia avuto, nel suo itinerario, il tenore internazionale del suo percorso? Alla luce della sua esperienza, crede che manchi qualcosa al sistema formativo italiano?
«Faccio parte della generazione del “Vecchio Ordinamento”, quella degli ingegneri cinquennali. A questa formazione non mancava niente, tecnicamente, eravamo formati a farci gettare in pasto alle belve del mondo reale. Forse un po’ le lingue straniere, confesso. Quello che manca al sistema formativo attuale è una preparazione alla vita professionale, gli insegnamenti sono troppo rapidi, meno approfonditi, l’Università è diventata più una fabbrica di lauree che un luogo di formazione tanto intellettuale quanto personale.
Il mio percorso è diventato internazionale grazie al Dottorato, che mi ha permesso, vedasi obbligato, di avere relazioni intellettuali in inglese, relazioni di presentazione, di dibattito, di interrogazioni. Un percorso di ricerca che apre la mente alle problematiche e alle culture: non riflettiamo tutti seguendo gli stessi schemi, secondo il paese e la cultura di provenienza. È questo l’elemento cruciale: per evolvere in altri contesti, l’apertura mentale, il sapere fare domande e ascoltare le risposte è fondamentale. E per poterlo fare, al di là delle solide competenze tecniche che sono la base del nostro lavoro, ci vogliono competenze linguistiche e dialettiche. Senza dimenticare il rispetto della diversità: del pensiero, delle tecniche, delle abitudini. Direi quindi che forse quello che manca al sistema educativo superiore italiano è proprio lo sviluppo delle Soft Skills».
Teme che il settore dell’ingegneria nazionale sia poco premiante per i ragazzi e le ragazze di maggior talento?
«Non lo temo, lo so. Personalmente, per esempio, sono stata fortunata ad avere tutor, nell’ambito universitario, che mi hanno messo in primo piano, facendomi parlare ai congressi, lasciandomi interagire in totale autonomia. Una dimostrazione di fiducia, ma anche una grande occasione per tessere delle relazioni. Il mondo, in fondo, è piccolo. I miei capi in Francia mi hanno anche loro sempre gettato in acqua senza salvagente, su progetti immensi, il che mi ha permesso di crescere alla velocità della luce. Hanno saputo prendere il rischio, scommettendo su di me. Non credo che in Italia sarebbe successo. Purtroppo, ascoltando i miei colleghi italiani, mi rendo conto che i giovani sono maggiormente tenuti indietro, sicuramente spesso per permetter loro di evolvere a un giusto livello di competenza, ma il rovescio della medaglia è che l’evoluzione è molto più lenta! L’istinto di sopravvivenza è un grande booster di competenze».
Quali sono i maggiori progetti che ha seguito e in quali direzioni stanno attualmente evolvendo le strutture in tutto il mondo?
«Tutti i progetti sono interessanti, piccoli o grandi, sotto casa o agli antipodi, che siano stati realmente costruiti o no. Quelli che mi hanno particolarmente colpito sono quelli che hanno rappresentato delle sfide, per esempio posso citare: il nuovo Aeroporto Internazionale di Bogotà (Colombia), il grattacielo Tour Incity (Lyon, Francia), la palestra polivalente di Asnières (Francia), il progetto di ampliamento della Gare Du Nord (Parigi, Francia), il Campus della banca Societé Generale (Val de Fontenay, Francia), il centro commerciale di Jeddah (Arabia Saudita), la nuova Accademia di formazione dell’OMS (Lyon, Francia), la canopea del Parco di Esposizione di El Jadida (Marocco).
A livello mondiale le strutture evolvono in modi estremamente diversi. In Cina siamo ancora nella fase della costruzione massiva di proporzioni ciclopiche, per esempio, correlata al loro sistema commerciale e di investimenti oligarchici, senza nessun progresso. Nei paesi dell’Europa centrale assistiamo a una omogeneizzazione con gli standard dell’Europa occidentale. Il contesto economico e geopolitico è in questo momento un freno per molti paesi, ci chiediamo soprattutto quando le ricostruzioni avranno luogo, che direzione prenderanno, per esempio un Ucraina e Palestina. Le evoluzioni delle strutture, per i pochi paesi che vogliono veramente evolvere e che non stanno soltanto cercando di recuperare il tempo perduto, sono quelle dei paesi più stabili e sensibili all’impatto ambientale della costruzione, tanto nei materiali, nelle tecniche quanto nel costo ambientale “di servizio” delle costruzioni».
Quali innovazioni integrate, dallo smart building all’ecosostenibilità applicata alla progettazione, ritiene di maggior interesse per l’evoluzione della cultura delle costruzioni?
«Gli strumenti di evoluzione sono molteplici e viviamo una fase storica in cui stiamo cumulando queste novità a nuove esigenze di approccio alla progettazione. Il risveglio delle coscienze dal punto di vista dell’impatto ambientale del mondo della costruzione è un motore incredibile di innovazione ma anche di “rinnovo” della tradizione. Lo smart building è stato sviluppato partendo da come progettavamo (e vivevamo…) fino a ieri, oggi viviamo in un nuovo brodo primordiale di cui non sappiamo realmente cosa nascerà, dovrà lui stesso adattarsi. Ci sono due assi di grande interesse, a mio avviso, per la nostra professione di Progettisti: la ricerca di utilizzo di altri materiali, non per forza nuovi, ma in modo nuovo, per costruire in modo più sostenibile, e lo sfruttamento dell’IA, che può accelerare notevolmente l’evoluzione».
Dal punto di vista dei materiali, quali sono, a suo avviso, le novità di maggiore impatto?
«I leganti a freddo che permettono di creare “cementi” senza accendere un forno. Per esempio, una società francese ha sviluppato un legante basato sulla geopolimerizzazione di scarti della produzione siderurgica, con proprietà estremamente interessanti e resistenze equiparabili alla C40/45. I nuovi conglomerati cemento-terra/ cemento-fibre di legno / cemento-fibre di canapa, che rivisitano in modo nuovo antichi metodi costruttivi. L’utilizzo, senza limiti, degli scarti di produzione e dei materiali di rimpiego per creare costruzioni nuove. In fondo, le risorse sono sempre più limitate, ci dobbiamo adattare e la buona soluzione potrebbe non essere la novità a tutti i costi. La vera novità, a mio avviso, è l’aver preso coscienza dell’impatto del nostro, bellissimo, mestiere: che ci possa spingere ad assumere una postura costruttiva più rispettosa».
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