Giornalista professionista freelance, è laureata in Filosofia Teoretica all’Università Statale di Milano. Dopo aver esordito con collaborazioni per il Sole24Ore (Casa24) e il mensile Elle, attualmente scrive on&off line per testate nazionali ed estere centrando la sua indagine su design e architettura con particolare attenzione alla sostenibilità, Nuovo Umanesimo ed economia circolare. Pur viaggiando molto mantiene casa e cuore a Milano, la capitale del design che ha eletto a propria patria dopo aver vissuto a Londra per qualche tempo.
La memoria attraverso il calcestruzzo. Al MAXXI di Roma un viaggio fotografico nella storia del nostro Paese
Il calcestruzzo come collettore di ricordi ed evocatore di immagini dal passato, chiave per aprire il cassetto della memoria, personale e collettiva, ma anche base da cui partire per pensare a come sarà il futuro. Tutto questo è il progetto Calcestruzzo, vincitore della VIII Edizione del Premio Graziadei per la Fotografia in coproduzione con il MAXXI – Museo nazionale delle arti del XXI secolo di Roma. Autore del lavoro è Nicola Di Giorgio, artista visivo selezionato tra 166 progetti partecipanti, che come un collezionista ha accumulato materiali trovati, donati o così come fotografe, sculture, cartoline, giornali, libri, acquistati attraverso il portale eBay, per scandagliare uno dei grandi protagonisti del paesaggio italiano contemporaneo: il calcestruzzo.
Ponendo in relazione la storia italiana del primo “Boom Edilizio” e l’attualità, Di Giorgio ha maturato la convinzione che «il cemento ha plasmato non solo lo spazio urbano, le coste, le periferie, ma anche i luoghi della vita quotidiana, dando forma allo spazio fisico e al paesaggio emotivo su cui ormai diverse generazioni sono cresciute». Il Premio Graziadei per la Fotografia che Di Giorgio si è aggiudicato è un riconoscimento nato nel 2012 dall’iniziativa dello Studio Legale Graziadei con l’obiettivo di promuovere il lavoro di giovani autori e di continuare a sostenerlo nel tempo, entrato dal 2019 a pieno titolo nella programmazione delle attività di Fotografia del MAXXI, grazie a una collaborazione che prevede ogni anno una mostra e l’acquisizione dei progetti vincitori nella Collezione permanente di Fotografia dello stesso museo romano. L’assegnazione di questo riconoscimento a Calcestruzzo, si legge nelle motivazioni, è dovuta alla «coerenza formale e concettuale del progetto, la capacità di sintesi e lo sviluppo personale del linguaggio fotografico, utilizzato per raccontare un preciso fenomeno con profondi risvolti sociali e culturali (…) La prospettiva di Di Giorgio è al contempo personale e collettiva, restituita con una cifra asciutta e poetica. La fotografia di Di Giorgio esplora, suggerisce, e lascia aperto uno spazio di meditazione per far emergere, dal contrasto tra delicatezza e durezza in alcune immagini, un racconto ancora da scrivere, quello di possibilità alternative alle criticità del reale».
La mostra, a cura di Simona Antonacci, si è svolta dal 15 giugno al 11 settembre del 2022 ma il prossimo autunno tornerà visibile arricchita dalla seconda parte del progetto che l’artista sta sviluppando in questi mesi e per la cui realizzazione ha visitato anche i laboratori dall’i.lab Italcementi di Bergamo approfondendo gli studi sul materiale oggetto della sua attenzione.
Come mai ha deciso di occuparsi di calcestruzzo, da dove nasce il suo interesse per questo materiale?
«Calcestruzzo è una parola chiave, un passe-partout che mi permette di esplorare la storia collettiva del nostro Paese e contestualmente quella della mia famiglia, consentendomi di porre sullo stesso piano riflessioni pubbliche e private, genialità e stupidità, senso civico e menefreghismo, sogno e realtà, arte e scienza. Sono nato nel 1994 a Palermo e ho percorso i miei primi passi in un condominio eretto nell’era del boom edilizio delle cooperative sociali, una casa che ha rappresentato il coronamento del sogno dei miei genitori e la serenità dei miei nonni. In quegli anni la crescita demografica della città aveva fertilizzato un’ulteriore espansione delle aree periferiche nel cuore della Conca D’Oro, una pianura dove un tempo la città terminava per dare spazio alla campagna con i suoi agrumeti e corsi d’acqua. La vista dalla “stanza dei ragazzi”, nella mia casa natale, è su quella valle dove oggi a far da protagonista è un agglomerato anarchico di edifici passato alla storia come il “Sacco di Palermo”, un ostacolo che mi impedisce la visione del mare, ridotto a uno spicchio residuale che ricorda l’essere in una città sul Mediterraneo. In quella camera, oltre a dividere gli spazi con mio fratello maggiore, i nostri giocattoli convivevano con il tecnigrafo e la carta lucida di mio padre geometra.
Calcestruzzo non è la prima parola che ho pronunciato, ma di certo è la prima che ho sentito, presente con me fin dall’inizio. Da una parte evocata dal mestiere di mio padre e dell’altra dal contesto in cui crescevo. C’è una fotografia, scattata da mio padre all’incirca alla mia stessa età di adesso, che secondo me disegna efficacemente lo spirito dell’epoca. L’immagine ritrae uno dei suoi primi cantieri pubblici da progettista e direttore dei lavori. Si vede una strada prossima all’ultimazione dei lavori, con elementi distintivi di un cantiere ancora operante, presso una via secondaria del suo paese natale, Roccamena, collocato lungo la strada Statale 624 Palermo-Sciacca che collega i due centri attraversando la Valle del Belice. In primo piano una Fiat 127 con a bordo mia madre e mio fratello di pochi anni. Questa fotografia riassume in sé l’immaginario del sogno italiano, il consolidamento dello status sociale, la dignità del proprio lavoro e un futuro sereno. In quell’immagine mio padre si lascia alle spalle le generazioni del boom economico, dell’investimento sul mattone e delle multiproprietà. Un’eredità agrodolce che la mia generazione è chiamata a gestire, ovvero capolavori come le opere d’ingegneria di Pier Luigi Nervi e l’edilizia sociale di Giancarlo de Carlo ma anche il “Sacco di Palermo” e il fenomeno della Rapallizazione, che ha trasfigurato e massificato le cittadine lungo le coste italiane. Il calcestruzzo, materiale da costruzione per eccellenza in Italia, concretizza e permette di legare insieme tutte queste riflessioni, personali e insieme sulla storia dell’Italia, pensieri che dai tempi in cui guardavo dalla mia finestra continuo a frequentare e approfondire incrociando il registro privato con quello collettivo, ovvero il tema del paesaggio antropizzato e dell’Italia costruita sui viadotti e sui ponti.
Il calcestruzzo ci mostra limpidamente la sua dualità, da un lato l’essere il mezzo da costruzione per antonomasia e dell’altro la sua pratica d’uso, avvenuta anche senza alcun raziocinio. Con il progetto Calcestruzzo ho cercato di mettere ordine al disordine del passato e del mio presente, con la possibilità di divulgare conoscenza, di sollecitare alla curiosità e alla riflessione del futuro prossimo».
Parlando di viadotti e ponti viene in mente la pila presente in “Calcestruzzo”, il progetto che le ha permesso di vincere il Premio Graziadei per la Fotografia al MAXXI di Roma.
«Quando ho deciso che era il calcestruzzo il focus della mia ricerca ho iniziato ad approfondire l’argomento per comprenderne la natura. Dopo la visione del documentario 10 Anni di Autostrade 1956-1966, ancora intriso di fascinazione, mi sono recato nello storico ferramenta del mio quartiere, dove mi conoscono fin da bambino, e ho preso tutti gli elementi necessari per erigere la mia pila. Con la piena ingenuità di un bambino che gioca alle costruzioni, la pila mi ha permesso di comprendere la materialità del calcestruzzo e di costatare, in uno stato di pura frenesia, l’innovazione del ferro-cemento di Nervi. Lo scantinato comune nel mio condominio è diventato un laboratorio temporaneo, dedito alla pura sperimentazione del costruire, distruggere, fotografare e immaginare quello che sarebbe diventato, da lì a poco, il progetto Calcestruzzo. In sintesi, la pila rappresenta per me la storia del sogno italiano, l’innovazione dell’epoca del Boom edilizio e il retaggio enigmatico con il quale oggi dobbiamo confrontarci. Una scultura simbolica che desidera mantenere il suo anonimato con la presunzione di evocare dubbi, domande e perplessità.
Come ho avuto modo di dire presentando il mio progetto, il linguaggio predominante in Calcestruzzo non è la fotografia, ma l’immagine contenuta all’interno della fotografia, uno strumento per ripercorrere parte della storia della civiltà umana, del suo gusto ma anche, e soprattutto, della trasformazione della società e degli agglomerati urbani.
Seguendo la lezione del grande fotografo Luigi Ghirri, che con la serie Atlante del 1973 ha permesso di percorrere il mondo pur senza spostarsi dal suo studio, sono tornando nei luoghi della mia infanzia dalla Chiesa Parrocchiale del SS. Crocifisso, un edificio incompleto in cemento armato edificato per una nuova zona residenziale, alla scuola Materna Santa Rita della Congregazione Suore Agostiniane, nel quale in un mappamondo di metallo ho visto e accarezzato il mondo per la prima volta. Li ho fotografati e così riprodotti li ho accostati a foto di oggetti e immagini trovate e comprate su eBay digitando la parola “calcestruzzo”.
Si tratta per lo più di cartoline databili tra gli anni Sessanta e Ottanta che ritraggono parti di città in espansione, cementifici e strade, quello che è stato fatto nel bene e del male in Italia. Dal meraviglioso palazzetto dello sport di Pier Luigi Nervi a Roma alle immagini di Borgonovo a Palermo, area nata durante gli anni del Sacco di Palermo, opere create con il calcestruzzo dal genio di Ponti, Moretti e De Carlo accanto ad altre che hanno deturpato il paesaggio. Materiali collezionati perché restituissero l’immaginario che intorno a questo tema si è andato costruendo nel tempo.
Come una sorta di navicella del tempo ho adoperato il calcestruzzo per proiettare, comprendere e ordinare una parte della storia del nostro Paese quindi ho cercato di collocare soggetti e pensieri accumulati negli anni, su di un muro democratico eretto negli spazi del MAXXI di Roma, a volte generando contrasti altre creando armonia tra elementi apparentemente distanti tra loro.
Adesso, concluso il primo atto di Calcestruzzo dedicato alla memoria collettiva e privata e in vista dell’esposizione della prossima in autunno al MAXXI di Roma, sto concentrando la ricerca sul secondo capitolo del progetto ovvero un’analisi sugli sviluppi tecnologici ed eco sostenibili del materiale. Per questo ho contattato Italcementi, la realtà storica più competente in materia, e lo scorso novembre ho avuto l’occasione di accedere ai loro laboratori».
Che impressione ha tratto dalla visita all’Italcementi?
«Parto con il ringraziare Italcementi per aver accettato la mia richiesta, è stata un’esperienza entusiasmante. Al di là delle mie aspettative. Mi permetto di ringraziare anche lo Studio Legale Graziadei, fondatore del Premio Graziadei per la Fotografia, per il sostegno economico e l’opportunità di proseguire la mia ricerca sul calcestruzzo.
L’attività di ricerca sul calcestruzzo dopo la mostra estiva al MAXXI mi stava portando ad approfondire il rapporto che intercorre tra il calcestruzzo e l’essere umano, focalizzando la mia visione sulla contemporaneità, il progresso e l’evoluzione. In particolare, mi stavo interessando alla stampa del calcestruzzo in 3D e volevo saperne di più sui suoi possibili utilizzi nella speranza di coniugare scienza e arte. Il nome Italcementi mi è subito venuto alla mente, sia perché sono i migliori del settore sia perché è un nome che risuona nei miei ricordi adolescenziali quando d’estate andavo al mare a Isola delle Femmine e nel tunnel lungo la strada leggevo le indicazioni con il nome della cementeria poco distante. Oltrepassare le mura di Italcementi è stato sciogliere una curiosità lontana. È impossibile nascondere l’emozione nell’ottenere l’opportunità di fotografare parte di un carotaggio di calcestruzzo di epoca romana o venire a conoscenza degli studi intrapresi da Italcementi per l’utilizzo delle macerie edili trasformandole in materiali inerti per nuove costruzioni.
Tra ampolle, aspiratori, vasche, clinker, polveri e forni, ho percepito la passione che i tecnici dei laboratori di Italcementi mettono nel loro lavoro con la speranza di un futuro più sostenibile e vivibile del passato. Il loro è uno sguardo costante al futuro, allo sviluppo e all’innovazione nel pieno rispetto della natura, ad esempio con le pavimentazioni traspiranti che permettono il corretto assorbimento delle acque piovane. Tecnologie che promettono concretamente maggior attenzione per il paesaggio, perché possa essere tutelato e non divorato come avveniva in passato. Innovazioni che io credo, se sostenute dai privati e dalle amministrazioni, oltre che dai progettisti, possono essere la chiave di volta per diminuire e quindi arrestare il fenomeno della sigillatura dei suoli e i costanti rischi idrogeologici. Sarei dovuto restare qualche ora ma alla fine vi ho passato l’intera giornata perché c’era talmente tanto da studiare, da vedere e fotografare che ho pensato fosse davvero un momento decisivo per riuscire a capire questo materiale e il lavoro a esso relato.
Come persona sono d’indole nostalgica, ho la costante necessità di guardare al passato per comprendere il presente. In questo viaggio per continuare la ricerca sul calcestruzzo, Italcementi per me rappresenta indiscutibilmente la storia dell’innovazione ma anche l’avvenire, le nuove tecnologie del materiale. Condivido quindi con loro l’attenzione alla divulgazione della conoscenza di quanto si sta facendo in questo campo e la missione di far comprendere al semplice cittadino cosa sta accadendo e dove stiamo andando».