Fabrizio Baleani si laurea in Filosofia all'Università di Macerata e si diploma al Master per l’Informazione Culturale promosso dall'Università di Urbino e dal Centro europeo per l'Editoria. Giornalista, ha scritto per service editoriali, radio, testate. Si occupa di contenuti editoriali e relazioni con i media per la società di comunicazione LOV.
L’ingegnere è il motore della ripresa italiana. Intervista ad Angelo Domenico Perrini, Presidente del Consiglio Nazionale Ingegneri
PNRR, sicurezza del territorio, eco-sostenibilità, opere pubbliche, trasformazione digitale. Questioni differenti e cruciali che hanno il medesimo protagonista: l’ingegneria nazionale. A spiegarci come i professionisti di questa multiforme disciplina tecnico-intellettuale siano attori imprescindibili nello sviluppo del Belpaese è Angelo Domenico Perrini, presidente del Consiglio Nazionale degli Ingegneri.
Per la “Mappa della professione ingegneristica” il numero degli occupati della categoria è in crescita. Come sta cambiando la professione e quale ruolo è chiamata a svolgere nell’importante partita nazionale del PNRR?
«La professione dell’ingegnere sta cambiando certamente, già da anni. In particolare, questo mutamento si è concretizzato nel momento in cui sono stati introdotti i tre settori: il comparto civile ambientale, l’area dell’ingegneria industriale e l’ambito dell’informazione. Un dato paradigmatico può restituire immediatamente il cambiamento in corso: quest’anno, i laureati in ingegneria industriale e in ingegneria dell’informazione hanno superato quelli tradizionali. Tuttavia, il ruolo dell’ingegnere resta assolutamente centrale nella società civile e risulta indiscutibilmente prioritario per la decisiva sfida del PNRR. Infatti, se si esaminano le aree di intervento sulle quali insiste il Piano nazionale di Ripresa e Resilienza, si comprende quanto sia indispensabile il contributo della nostra categoria. Ad esempio, il comparto della digitalizzazione, cultura e turismo riguarda prioritariamente gli ingegneri del Terzo Settore. Non si può parlare di trasformazione digitale senza far riferimento alla nostra professione. Analogamente, la seconda missione prospettata dal Piano, riguardante la transizione ecologica, sia nei suoi riflessi sulla questione energetica, sia per i suoi indirizzi sulla mobilità sostenibile è patrimonio degli Ingegneri. Il dispiegamento della nostra professionalità è il cuore e la condizione fondamentale della concretizzazione di tutte le azioni che sostanziano l’attività di pianificazione che l’Italia deve mettere a punto: dalla salvaguardia ambientale alla tutela delle risorse idriche sino agli obiettivi di rafforzamento infrastrutturale o dell’importante irrobustimento delle conquiste più avanzate della telemedicina. In sostanza, se il Paese vorrà cogliere questa occasione per un deciso e complessivo balzo in avanti, dovrà necessariamente tener conto di noi. Il problema che rileviamo è che a fronte di questa domanda di ingegneria, la nostra formazione universitaria non ci sembra sufficientemente professionalizzante. Da tempo noi preghiamo le strutture universitarie di modificare sia i propri piani di studio, sia le modalità di accesso alla laurea. Ci battiamo, ad esempio, per la laurea abilitante e perché venga inserito, al quinto anno, un semestre di tirocinio da svolgersi o nelle strutture produttive o negli studi professionali, con l’ausilio degli ordini, e che completi concretamente, “sul campo”, la preparazione dei futuri colleghi».
Quali innovazioni sull’utilizzo dei materiali ecosostenibili per le future costruzioni possono consentire oggi uno sviluppo davvero all’avanguardia sul terreno della tutela ambientale?
«Il Codice dei contratti pubblici attuale che verrà sostituito a partire dal prossimo aprile, parlava già di “ciclo di vita dei materiali”. Oggi è di fondamentale importanza che un manufatto edilizio non sia visto soltanto rispetto alla fase di realizzazione. Va progettato tenendo in conto la manutenzione ordinaria e straordinaria cui necessariamente deve essere poi sottoposto e conseguentemente la materia di cui è costituito. Attualmente, non si parla più di demolizione, ma di decostruzione, ovvero di un processo nel quale i materiali demoliti debbono essere riutilizzabili e riutilizzati. Si tratta di una modifica sostanziale nella determinazione e nell’uso dei materiali. Questi ultimi, infatti, devono essere ecosostenibili durante il loro periodo di utilizzo e consentire, al contempo, il riuso nella fase di decostruzione. Il panorama dei casi e delle problematiche è complesso ed è legato alla necessità di utilizzare materiali il cui ciclo di vita sia descritto perfettamente dal momento della loro messa in opera alla fase del loro smaltimento. Molte sono le tecnologie avanzate usate in relazione alla pluralità dei materiali con lo scopo fondamentale di ridurre gli impatti ambientali.
Nel campo della transizione energetica con il passaggio alle fonti rinnovabili resta indispensabile risolvere parecchie problematiche, ad esempio quelle relative allo smaltimento o meglio ancora della rigenerazione delle celle fotovoltaiche o, per citare un’altra questione aperta, delle batterie delle auto elettriche. Solo affrontando anche simili temi si avanzerà sul terreno di un indispensabile superamento del fossile».
Dal 2020 la maggioranza delle aziende ha indirizzato importanti fette del proprio budget all’adozione e all’implementazione di nuovi strumenti digitali. Ma questo non avviene nel settore dell’edilizia e delle costruzioni. In questo comparto, infatti, solo il 16% ha destinato più del 10% del proprio budget alla digital transformation. Quali cause impediscono la digitalizzazione di questo importante segmento produttivo e che scenari futuri prevede?
«Questa domanda mi offre la possibilità di accennare a un formidabile fattore d’ammodernamento in questo ambito. Il Building Information Modeling (BIM) è il processo di creazione e gestione delle informazioni relative a una costruzione. Basato su un modello intelligente e supportato da una piattaforma cloud, il BIM integra dati strutturati multidisciplinari per creare una rappresentazione digitale di un asset durante tutto il suo ciclo di vita. Si tratta di uno strumento eccezionale che consente non soltanto di accelerare i processi di progettazione e realizzazione ma anche di migliorare la qualità dell’attività dei professionisti e delle imprese esecutrici. Purtroppo, ad oggi, ci sono stati molti rinvii nel passaggio a quest’innovazione. Il problema cruciale, in questo senso, è la carenza di diverse professionalità sia di ordine tecnico progettuale, sia di ordine informatico. Le imprese esecutrici spesso non ne sono dotate, anche perché nel panorama dell’edilizia nazionale operano principalmente piccoli imprenditori. Inoltre, anche le grandi società che caratterizzano questo settore stanno avendo ingenti difficoltà nella professionalizzazione di addetti altamente specializzati e di altri soggetti operanti nei cantieri. Per quanto attiene agli sviluppi futuri della transizione digitale del settore, da parte nostra stiamo attivando, nell’ambito della formazione obbligatoria dei professionisti, corsi ad hoc per l’utilizzo dello strumento che ho menzionato. Mi auguro che sotto la spinta di iniziative formative e della sempre maggiore diffusione di questo modello presso i tecnici, anche le imprese siano indotte a processi più decisi di digital transformation».
I recenti avvenimenti dimostrano che nessuna regione italiana può più considerarsi al riparo rispetto al problema del dissesto idrogeologico. L’ultimo rapporto ISPRA del 2021 evidenzia che il 94% dei comuni italiani è a rischio e circa 8 milioni di persone vivono in territori a rischio molto elevato per frane e alluvioni. Uno scenario così vasto e complesso impone dunque la messa in campo di una strategia integrata di azioni di prevenzione e gestione del rischio idrogeologico. Che cosa propongono gli ingegneri italiani?
«Ormai da molti anni, noi proponiamo al legislatore l’attuazione di un piano pluriennale che proceda a una preliminare e necessaria classificazione delle aree di rischio e a stanziamenti puntuali per la messa in sicurezza dei territori, chiaramente assegnando la priorità di intervento alle zone classificate come maggiormente rischiose, per poi procedere con quelle a rischio minore. Ovviamente un lavoro di questo genere non può che essere realizzato in tempi piuttosto lunghi, con una attenta programmazione a scandirne i passaggi.
Purtroppo, in Italia, questo processo tarda ad attivarsi per l’assenza atavica della propensione alla programmazione. La politica è abituata a interessarsi a problematiche e temi che consentono di vedere risultati immediati da spendere nel mercato elettorale. I risultati frutti di programmazione sul lungo termine non piacciono al legislatore ma sono gli unici che consentono di salvare vite umane e rivelarsi utili per larghissime fasce della popolazione. Purtroppo, la prevenzione non fa parte della cultura del nostro Paese. Siamo abituati a intervenire dopo l’evento, mai prima. Ci affidiamo all’operatività della Protezione Civile e agli organi che, con essa, collaborano a vario titolo. Reagiamo a un’emergenza non agiamo per prevenirla. Eppure, dovremmo imparare a evitare eventi tragici come i molti a cui, purtroppo, abbiamo assistito. Per scongiurare che si verifichino ancora occorre una vera pianificazione, un piano di intervento che comprenda, a monte, rigorosi esami di vulnerabilità dei manufatti, definizione di fasce di rischio, e specifiche attività preventive con una programmazione almeno trentennale. L’attenzione alla prevenzione ha animato la ferma insistenza della nostra categoria sul fascicolo del fabbricato, una sorta di carta d’identità delle costruzioni, strumento idoneo a stabilire in maniera misurabile, anche per i cittadini, la condizione effettiva degli edifici. Con la stessa logica noi ingegneri abbiamo ritenuto di straordinaria rilevanza e utilità lo strumento normativo del sisma-bonus, atto a incentivare l’adeguamento dei manufatti edilizi conformando questi ultimi a criteri di sicurezza».
Il nuovo Codice Appalti entrerà in vigore dal 1° aprile 2023. Il CNI ha espresso delle criticità sul testo in quanto la semplificazione non può essere conseguita a scapito della qualità della progettazione. Che cosa vuol dire?
«Noi riteniamo che la qualità della progettazione sia lo strumento ideale sia per poter accelerare la costruzione delle opere sia per poter risparmiare sulla realizzazione delle stesse. Al conseguimento di questi due obiettivi è fondamentale, secondo noi, la stesura dettagliata di un buon progetto. Se si sa cosa si vuole fare e in che modo lo si deve fare, è più facile che si perda anche meno tempo. Lo abbiamo precisato anche quando, di fronte alla nostra fermezza nel ribadire che il progetto fosse l’elemento centrale, la risposta ha giustificato l’insistenza sulla celerità come una richiesta esplicita del PNRR. La preoccupazione che abbiamo è che questo codice costituisca un passo indietro rispetto ai risultati raggiunti negli anni scorsi. Una progettazione qualitativamente di livello e dettagliata in tutti gli aspetti è fondamentale anche per la rapidità esecutiva.
Ciò che ancora non funziona in Italia è invece il cosiddetto tempo di avvicinamento, ossia l’arco temporale che separa il momento in cui un’amministrazione decide di realizzare un’opera e quello in cui quest’ultima viene consegnata all’appaltatore e inizia la sua effettiva realizzazione. Si tratta di tempi estremamente dilatati e questo è senz’altro inaccettabile. Molte volte i tempi di avvicinamento sono pari, addirittura, a due volte il tempo necessario alla realizzazione di un’opera. È chiaro dunque che la burocrazia è un elemento critico che andrebbe corretto, come suggeriamo da anni.
Da questo punto di vista la bozza del nuovo codice si pone finalità condivisibili nel momento in cui fissa obbiettivi quali principio del risultato, principio della fiducia e principio di accesso al mercato; riteniamo però che ad esempio sia da correggere l’estensione eccessiva dell’appalto integrato, in termini di progettazione e realizzazione dei lavori da parte dell’impresa appaltatrice, che la bozza non rivolge soltanto alle opere complesse o quelle ad alto contenuto tecnologico, ma all’insieme complessivo dei lavori pubblici, con la sola esclusione delle opere di manutenzione ordinaria. Nella sostanza, con tale sistema le scelte principali vengono delegate al privato, perdendo così la centralità del progetto attualmente in capo alle stazioni appaltanti, che perseguono interessi pubblici. In linea col principio dell’equo compenso, inoltre, è necessario il richiamo, nel calcolo dei corrispettivi dei servizi di architettura e ingegneria, all’utilizzo dei parametri di riferimento per la determinazione degli importi da porre a gara.
Risulta eccessiva, infine, la richiesta dei requisiti di partecipazione da parte degli operatori economici, in chiara contraddizione con il principio della apertura del mercato, atteso che, come sancita, determina l’esclusione di gran parte dei professionisti dalla possibilità di concorrere alla realizzazione di opere pubbliche; per la partecipazione a un bando viene preso in considerazione esclusivamente il fatturato dell’ultimo anno, antecedente la data del bando per quanto riguarda i requisiti economici, e, relativamente ai requisiti tecnici, vengono presi in considerazione soltanto gli ultimi tre anni di lavoro del professionista contro i dieci previsti dal testo precedente. Si comprende bene come, tenuto conto della contrazione dell’attività professionale nel periodo post covid, la platea di professionisti in grado di essere impiegata nel campo delle opere pubbliche venga drasticamente ridotta. Se poi si aggiunge il dettaglio introdotto sulla possibilità di subappaltare le prestazioni intellettuali si comprende bene che una tale procedura, senza fissare limiti e modalità, può finire per ledere oltre che il diritto a una giusta remunerazione l’autonomia del progettista».