Da oltre 20 anni lavora nel marketing e nella comunicazione. Come giornalista, ha curato e cura gli Uffici Stampa di alcune importanti realtà nazionali come l’Unione Camere Penali Italiane e il Consiglio Nazionale Ingegneri. È tra le fondatrici del Green TG, prima web TV italiana dedicata ai temi ambientali.
L’Italia è un Paese per vecchi (ospedali)?
Intervista a Stefano Capolongo, professore Ordinario di Hospital Design e Urban Health e Direttore di Dipartimento al Politecnico di Milano. «L’innovazione? Si misura dalla sostenibilità ambientale e sociale dei nosocomi. Le tecniche costruttive stanno evolvendo».
Le strutture di cura possono soffrire d’incuria? La risposta, purtroppo, sembra affermativa. Almeno a giudicare dal rumore sollevato, pochi mesi fa, dagli eloquenti dati di una Commissione d’Inchiesta parlamentare sorta ad hoc per indagare sulla spinosa questione. Lo studio, oltre a rilevare che il 9% dei nosocomi italiani risale all’era napoleonica e a fissare al 15% il segmento di edifici ospedalieri nato quando i nostri bisnonni combattevano la Prima guerra mondiale, mostra un quadro di sostanziale obsolescenza delle costruzioni a scopo sanitario. Di fatto, solo il 18% ha meno di 33 anni. Un’età complessiva altissima che gli esperti del settore vorrebbero ridurre sensibilmente attraverso innovative green-buildings in grado di ridurre in grado di ridurre i consumi e migliorare l’assistenza, intimamente connessa con i sistemi costruttivi. Sono convinzioni che animano ed impegnano concretamente la traiettoria di ricerca di Stefano Capolongo, professore Ordinario di Hospital Design e Urban Health e Direttore del Dipartimento Architettura, Ingegneria delle costruzioni e Ambiente Costruito (DABC) al Politecnico di Milano.

Come la Scienza delle costruzioni e le innovazioni in questo comparto incidono nel migliorare le strutture che ospitano le attività di cura e ad esse partecipano?
«Oggi una delle grandi sfide è quella di definire e creare nuovi modelli strutturali e tecnologici che siano in grado di interpretare il cambiamento del progetto ospedaliero. Occorre una decisa spinta in avanti sia dal punto di vista industriale ma soprattutto nel comparto cruciale della ricerca. L’obiettivo da raggiungere è il passaggio a sistemi a tecnologia avanzata dotati di due caratteristiche fondamentali. La prima riguarda la rapidità della costruzione, coinvolgendo modalità costruttive in grado di prevedere il ricorso all’assemblaggio a secco e alla prefabbricazione con il vantaggio di avere tempi più brevi, maggiore monitoraggio dei processi e una misurazione più puntuale degli standard e delle caratteristiche prestazionali che indicano le performance dei materiali. Si tratta di un aspetto che incide anche nella sostenibilità. Noi sappiamo infatti che la produzione di materiali tecnologici nei manufatti edilizi presenta un impatto ambientale. In ambito industriale riusciamo a misurare la quantità di energia, la provenienza, la composizione materica. Ma esiste un concetto molto importante, sotto il profilo della green sustainability: si tratta della replicabilità, ovvero la possibilità di creare un elemento che possa essere replicato e usato per un certo numero di volte. Una struttura ospedaliera ha un’esistenza ormai breve. Se nel medioevo gli ospedali funzionavano per 500 anni e quelli a padiglioni hanno retto per almeno un secolo, attualmente, il loro ciclo di vita si stima attorno ai quaranta o cinquant’anni. Inoltre, i tempi di progettazione e di conduzione dei lavori portano via uno o due decenni. In questo quadro è necessario lo sviluppo di tecniche costruttive che nei materiali e nei processi siano all’avanguardia, sia in termini di eco-compatibilità, sia in termini di consumi energetici. Un esempio sono gli ospedali modulari che prevedono una struttura portante dentro la quale si innestano dei moduli. Ogni singolo modulo può essere assemblato e al suo interno si possono configurare attività differenti nella stessa dimensione: da una camera di degenza a un laboratorio. In questo modo l’ospedale è una grande scatola all’interno del quale possiamo trovare box facilmente interscambiabili, infrastrutturati dal punto di vista impiantistico e capaci di contenere qualsiasi tipo di attività con caratteristiche prestazionali omogenee in tutto l’edificio. Così è possibile vincere la composita sfida di una sostenibilità che deve intendersi secondo tre direttrici: ambientale, economica e sociale».

Boeri Studio_Policlinico di Milano, Render del nuovo Policlinico di Milano, Roof Garden
Come la progettazione, in ambito sanitario, può rappresentare un fattore cruciale nella creazione di ambienti che promuovono la guarigione e migliorano l’esperienza complessiva dei pazienti e del personale medico?
«Le tre direttrici sopra esposte sono strettamente collegate e non possono pensarsi scisse. Possiamo fare un progetto in cui inseriamo un numero elevatissimo di tecnologie per rispondere a giusti criteri di efficientamento energetico in strutture che funzionano h24, ma se poi non c’è anche una concreta sostenibilità sociale la struttura risulterà limitata, manchevole. Con l’espressione sostenibilità sociale si intendono molti aspetti. Dalle questioni ambientali, all’accessibilità da parte dell’utenza, da garantire a tutti. Noi oggi parliamo di Inclusive Design intendendo un progetto che sia utilizzabile da ogni persona, tenendo conto che negli ospedali i bisogni specifici di ognuno sono molto diversificati. La risposta a questa sfida è l’inclusione.
Dopo la recente pandemia da Covid-19 si è capita l’importanza dello spazio fisico in termini di promozione della salute. In particolare, si è compresa la capacità dello spazio di sostenere chi ha bisogno in molte maniere, di diventare “protesico”. Il primo obiettivo di uno spazio protesico è quello di mettere in sicurezza tutti coloro che lavorano in ospedale. La seconda finalità è quella di aumentare la condizione di benessere di tutti coloro che per qualsiasi ragione abitino quello spazio. Mi riferisco ai degenti, ma anche agli infermieri, al personale medico e agli amministrativi ponendone al centro le diverse e specifiche esigenze. In un’indagine realizzata assieme all’Università di Genova abbiamo monitorato, come, in un reparto psichiatrico, la pausa di venti minuti del personale sanitario trascorsa in un’area senza finestre conduca a lavorare con maggiore stress e con un più accentuato rischio di errore rispetto allo stesso lasso di tempo trascorso in un’area con accesso, anche semplicemente visivo, ad aree verdi. La studiosa canadese Moira Jhonson dimostrò per prima la possibilità di uno spazio di essere protesico verificandone l’incidenza sulle demenze, in particolare sui malati di Alzheimer. In questo senso lo spazio sembra avere una funzione terapeutica estremamente efficace. La percezione di un’area spaziale ben definita contribuisce a mantenere attive le percezioni sensoriali. Progettare un corridoio stretto e lungo non aiuta ad aumentare la riconoscibilità di dove ci si trova. Un percorso che preveda dei momenti riconoscibili abbinati a colori differenti, al contrario, tende a stimolare e allenare l’attività percettiva. Analogamente per l’illuminazione, è preferibile la luce naturale che viene portata anche negli ambienti sotterranei con sistemi di riflessione appositi. Laddove questo non sia possibile, usiamo strumenti che garantiscano il massimo grado di illuminazione naturale con attenzione alla dinamicità luminosa, in grado di far cambiare, come avviene naturalmente, la luminosità degli ambienti e l’intensità della luce evitando di generare la stanchezza di una luce immobile, fissa, sempre uguale. Un altro concetto importante è quello di Healing Gardens ed Evidence Based Design, approfondito dal teorico americano Roger Ulrich, che nel 1984 pubblicò per la prima volta questo termine sulla prestigiosa rivista “Science”. Condusse infatti uno studio su pazienti e riscontrò una correlazione statisticamente significativa tra i minori tempi di cura e il minor uso di medicine nei pazienti ricoverati in stanze che si affacciavano su un cortile verde, rispetto a quelli ricoverati nelle stanze che davano su un altro edificio. Questo studio aprì la via all’idea dei benefici psicologici degli spazi verdi, i quali contribuiscono a un benessere visivo che giova alla salute mentale e accelera i processi di guarigione».
Qual è la situazione attuale dal punto di vista dei materiali innovativi?
«C’è poca ricerca nell’ambito delle costruzioni innovative riguardanti la sanità. Occorre assumersi l’onere e la responsabilità sociale di migliorare, accrescendo le nostre conoscenze in materia. Di contro, per fortuna, altri settori conoscono un maggiore sviluppo. Mi riferisco, oltre a numerosi altri comparti al mondo dell’innovazione dei materiali. Si tratta di strumenti e tecnologie che in gran parte già conoscevamo ma il cui utilizzo e divenuto imperativo solo dopo il Covid. Oggi in un ospedale oltre a utilizzare materiali ecocompatibili, per gli ambienti indoor e outdoor, si introducono anche materiali foto-catalitici in grado di andare a introdurre una azione anti-batterica ed anti-virale negli ambienti. Pertanto, l’innovatività dei materiali in questo caso serve a limitare, in aggiunta ai comportamenti e alle regole già destinate a questo scopo, la cosiddetta cross-contamination e le infezioni correlate all’assistenza ospedaliera».

Nel settore dell’edilizia, è sempre più diffusa una particolare attenzione alle tematiche dell’eco-sostenibilità. In ambito normativo, con il Codice dei Contratti Pubblici, sono stati resi obbligatori i Criteri Ambientali Minimi (CAM) per l’edilizia. Questo obbligo garantisce che la politica nazionale in materia di appalti pubblici verdi sia incisiva non solo nell’obiettivo di ridurre gli impatti ambientali, ma anche nel promuovere modelli di produzione e consumo più sostenibili. Da questo punto di vista, considerando la sua esperienza di ricerca, anche all’estero, qual è la situazione dei nuovi materiali sostenibili?
«Sotto questo aspetto la situazione è in costante evoluzione. Oggi oltre ai CAM, esistono anche i sistemi di certificazione, come ad esempio gli standard “ecolabel” o “carbon neutral”, che documentano la qualità ambientale dei prodotti edilizi e la loro ecocompatibilità, diventando sempre più imperativi nelle strutture ospedaliere in quanto preposte al recupero della salute».
Ci sono strutture ospedaliere come il nosocomio del Sud-Est Barese realizzato da Heidelberg Materials (che in Italia ha raccolto l’eredità di due brand storici come Italcementi e Calcestruzzi e si impegna a un’attività di ricerca in grado di condurre al miglioramento della qualità dell’aria) definite “green buildings”, nel rispetto dei principi definiti con gli SDGs (Sustainable Development Goals), gli obiettivi di sviluppo sostenibile lanciati dall’Onu. Esse rappresentano modalità innovative di costruzione con grande attenzione al recupero e al riutilizzo dei materiali nel territorio. Sono paradigmi di progettazione da incentivare, secondo lei?
«Assolutamente sì. Si tratta di indicatori imprescindibili per tutti, dalle aziende alle organizzazioni, a cui abbiamo il dovere di dare risposte concrete. Per quanto riguarda l’obiettivo del riutilizzo dei materiali, il suo pieno raggiungimento mi sembra di assoluta importanza. Lo dico a ragion veduta. Noi, qui al Politecnico, abbiamo un laboratorio, all’interno del Dipartimento che dirigo che lavora proprio al recupero dei materiali attraversando differenti discipline e saperi come la chimica e la meccanica. Si tratta di un processo che chiaramente deve adattarsi alle funzioni e alle circostanze concrete. Come ho già accennato, oggi il futuro è diretto verso soluzioni di assemblaggio a secco. La vera sostenibilità, per me, è quella di una struttura ospedaliera che quando ha trascorso il suo effettivo ciclo di vita possa essere smontata, con materiali riusabili, e l’area possa essere destinata a nuove attività, nuove costruzioni, nuove funzioni».
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