Assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi dell’Insubria, si occupa prevalentemente, nell’ambito dei visual studies, del rapporto fra cinema, storia e arti figurative. È autore di monografie, saggi scientifici e articoli su volumi e riviste di cultura visuale di ambito nazionale e internazionale. È giornalista pubblicista, redattore di Cineforum, collaboratore di Eppen (L’Eco di Bergamo) e ha lavorato per numerosi festival cinematografici, fra cui il Torino Film Festival. Svolge inoltre l’attività di formatore di educazione all’immagine per i ministeri della Cultura e dell’Istruzione.
Fantascienze, distopie, opere d’autore o documentari. Sono molti i film nei quali il cemento – inteso come materiale da costruzione, ma in senso allargato come parte prevalente di un elemento architettonico – assume risalto, è parte integrante o protagonista delle storie che vengono raccontate. E non sempre in senso negativo!
È di pochi giorni fa la notizia che a Ravenna è stata abbattuta una delle torri Hamon. Il Comune ha preso la decisione per motivi ecologici e di sicurezza, ma molti cittadini (e non solo) hanno manifestato via social il loro disappunto e hanno definito il gesto dello smantellamento una vera e propria violenza, se non la volontà deliberata di voler cancellare la storia della città. Ma che cosa sono le torri Hamon? Non certo delle opere di comprovato valore artistico o modelli di architettura con caratteri peculiari, piuttosto delle enormi torri di raffreddamento in cemento armato alte 55 metri costruite negli anni Cinquanta del Novecento all’interno della raffineria Sarom con sede nella città romagnola. E quindi perché in tempi in cui la lotta all’inquinamento e agli ecomostri è sempre più sentita e partecipata, gli abitanti di una città come Ravenna dovrebbero protestare contro l’abbattimento di due grandi camini artificiali di una raffineria? Semplice: perché quei torrioni sono stati resi immortali dal cinema di Michelangelo Antonioni.
Il suo film del 1964 Il deserto rosso – il primo a colori del regista ferrarese – è infatti ambientato per lo più a Ravenna e le torri Hamon, che compaiono in una lunga sequenza, nel corso degli anni sono diventate un elemento iconico e, proprio come la celebre battuta di Monica Vitti «mi fanno male i capelli», sono entrate nell’immaginario collettivo. Insomma esattamente come il vecchio “caminone” della Dalmine (in disuso da diversi anni ma ancora in piedi), le strutture di quella che oggi chiamiamo «archeologia industriale» designano in modo talmente peculiare un panorama, un territorio o, appunto, un immaginario, da suscitare legami e emozioni impensabili.
Diciamolo: il cemento – protagonista assoluto quando si parla di archeologia industriale – non ha mai goduto di ottima fama e nemmeno di buona stampa. Sarà il color grigio, sarà la piattezza con cui viene abitualmente posato o la funzione principale di legante idraulico, che tiene insieme fra loro materiali diversi e più nobili di lui, sta di fatto che quando si pensa a un’opera realizzata interamente in cemento quasi mai viene in mente qualcosa di bello. Eppure, il cinema ha spesso utilizzato fabbricati e edifici in cemento in modo talmente caratteristico che, proprio come nel caso di Antonioni con Il deserto rosso, hanno sviluppato un fascino del tutto particolare.
Uno dei primi autori a dedicare al cemento un film intero è stato – e non poteva essere altrimenti – Jean-Luc Godard. Da un regista tanto eclettico, geniale e originale non sorprende arrivi un’opera come Opération béton, realizzata da Godard nel 1954 durante un periodo di lavoro in Svizzera (terra d’origine della sua famiglia) per sottrarsi al servizio militare in Francia. Il regista, impiegato nel cantiere di una grande diga, filma in 16mm i lavori di costruzione, celebrando in un’opera liberissima non solo il lavoro come emblema della rinascita dell’Europa post bellica, ma anche il cemento come materiale virtuoso attraverso cui costruire il futuro.
Ed è di un altro grande protagonista dell’epoca d’oro del cinema francese, amico e collega di Godard, François Truffaut, un film emblema di uno dei generi che più di tutti ha lavorato sull’immaginario legato al cemento. Il genere è la fantascienza distopica e il film è Fahrenheit 451 del 1966, tratto dal romanzo omonimo di Ray Bradbury.
Se è vero che immaginare mondi “di cemento” è un tratto caratteristico di quel tipo di fantascienza che vuole suggerire l’idea di un futuro dominato da dittature o forme di governo coercitive e di società omologate e spersonalizzate, è anche vero che spesso le architetture mostrate in questi film diventano oggetto di interesse, se non di culto.
Il cosiddetto “brutalismo”, corrente architettonica nata negli anni Cinquanta del secolo scorso nel Regno Unito – di cui dentro Fahrenheit 451 vediamo diversi esempi – è lo stile prediletto da questo tipo di fantascienza. Il termine “Brutalism” che suona così male quasi esclusivamente nella nostra lingua, deriva dal concetto di béton brut (cemento grezzo) di Le Corbusier e ha più a che fare con “grezzo” inteso come semplice, liscio, minimalista piuttosto che con il “brutto”.
Architetture brutaliste popolano film come Alphaville (1964), Arancia meccanica (1971), Blade Runner (1982), 1984 (1984), RoboCop (1987), Atto di forza (1990), Resident Evil: Afterlife (2010), Hunger Games (2014), giusto per citare alcuni dei più celebri.
In Gattaca – La porta dell’universo (1997) compare il Marin County Civic Center di Frank Lloyd Wright, architettura tipicamente brutalista, già stata usata in L’uomo che fuggì dal futuro (1967). È invece un trionfo di architetture in cemento e allo stesso tempo un esempio di stile ultra-contemporaneo apprezzatissimo il recentissimo Dune – Parte due (2024). Nel film di Villeneuve compare anche il Memoriale Brion di Altivole (provincia di Treviso) progettato da Carlo Scarpa (e dove lo stesso architetto si trova sepolto): un’opera di grande suggestione in cui il cemento armato viene utilizzato in senso quasi figurativo e crea un’armonia e una morbidezza del tutto inaspettate.
Un po’ come succede, anche se in termini decisamente differenti, negli skatepark o in tutti quei luoghi – come piscine vuote, canali di scolo, scalinate, piazze, eccetera – in cui il cemento ridefinisce lo spazio pubblico attraverso curve, dossi e forme armoniose che diventano funzionali per le manovre acrobatiche di skater, pattinatori o ciclisti di bmx. Il cinema, soprattutto quello americano, ha frequentato spesso il mondo degli skatepark, a cominciare dal film più celebre, Paranoid Park (2007) di Gus Van Sant passando per Kids (1995), Lords of Dogtown (2005) o il più recente Mid90s (2018). Film che a loro modo e in forma inconsapevole riescono a rendere un aspetto ludico e perfino astratto del cemento al quale normalmente non si pensa.
Perché in fondo, come racconta il cinema, il cemento non è solo un collante che tiene attaccati materiali differenti, ma è una sostanza irrinunciabile del mondo in cui viviamo che dà forma, costruisce e rende più facile (e a volte persino più bella) la nostra quotidianità.
Una rassegna dedicata all’architettura nel cinema
Per chi volesse approfondire il rapporto tra cinema e architettura, la Fondazione Architetti Bergamo, in collaborazione con l’Ordine degli Architetti PPeC di Bergamo, ha organizzato la rassegna «Cinearchitettura».
L’ultimo incontro è in programma martedì 7 maggio, con la presentazione (Sede dell’Ordine degli Architetti di Bergamo, ore 17.30) e la proiezione (Cinema Capitol, ore 20), dei film Aldo Rossi design e Marion Baruch e la casa nella collina di Francesca Molteni.
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