Alessandro Benetti (1987) è architetto e dottorando in Storia dell’architettura contemporanea all’Université Rennes 2 e al Politecnico di Milano. Collabora regolarmente con Domus ed è editor di Urbano Magazine. I suoi articoli sono apparsi sulle principali riviste di settore: Abitare, Area, Interni, Platform Architecture & Design. Ha partecipato a numerose pubblicazioni di architettura contemporanea per i tipi di Hoepli, Quodlibet e Skira. Dal 2014 al 2017 è stato co-curatore con Luca Molinari della galleria SpazioFMG per l’Architettura, a Milano. Dal 2021 è membro del Consiglio Direttivo dell’ANCSA – Associazione Nazionale Centri Storico-Artistici.
Il mondo delle costruzioni e del progetto è fatto di materia tridimensionale ma anche di parole, di trasformazione delle cose e degli spazi ma anche di evoluzione dei discorsi che li raccontano. Le parole non esistono da sempre e non sono eterne: i termini nascono o sono inventati, si diffondono, diventano mainstream o restano di nicchia, talvolta durano nel tempo, altre volte svaniscono rapidamente, altre ancora sono oggetto di una vera damnatio memoriae. Il significato di ogni parola, che è “significante” per utilizzare il vocabolario della semiotica, cambia in contesti e in momenti storici diversi. Il breve glossario che segue è una selezione, necessariamente incompleta, di cinque (più due) parole-chiave del mondo contemporaneo delle costruzioni e del progetto. Ci hanno accompagnato nel 2022, scandendone gli avvenimenti salienti, e ci faranno certamente da guida anche in questo 2023 ai banchi di partenza. Non sono però in senso stretto parole dell’anno, perché i vocaboli si modificano, si impongono e sfioriscono nella longue durée di archi temporali ben più lunghi. Sono, però, termini indispensabili da tenere a mente per osservare, comprendere e commentare lucidamente i grandi cantieri – reali o possibili, attesi o temuti – dei nostri giorni.
Sostenibile, innanzitutto
Siccità è il titolo di uno dei successi cinematografici italiani del 2022. Il film di Paolo Virzì ritrae una Roma bollente, tropicalizzata, dove la prolungata assenza di precipitazioni ha completamente asciugato il Tevere e imposto severissimi razionamenti dell’acqua. Con una puntualità che ha della preveggenza, la pellicola è uscita nelle sale il 29 settembre, mentre le prime, deboli perturbazioni tardo-estive faticavano a colmare il pesante deficit idrico accumulato dall’intero continente durante i mesi precedenti. La questione annosa dell’acqua, della sua mancanza e del suo utilizzo oculato, è sempre più centrale nel dibattito dei nostri giorni. Alcuni interessanti progetti contemporanei di spazio pubblico si concentrano proprio su questo tema, ad esempio dotandosi di cementi drenanti che permettono il corretto assorbimento delle acque piovane nel terreno: il bel parco Atzeni di Quartucciu, nei pressi di Cagliari, completato proprio nel 2022, ne è un esempio. L’acqua, però, è solo una delle molte sfumature della parola per eccellenza dell’anno, del decennio e probabilmente del secolo: sostenibilità. È sulla bocca di tutti e nei sogni di tutti, è in ogni relazione di progetto, comunicato stampa e articolo sull’architettura e la città. È nella verità delle migliori costruzioni contemporanee e nell’apparenza di tutte le altre, che cercano almeno di sembrare sostenibili. È il termine-chiave dei nostri tempi, da usare con cautela e precisione per non disperderne la densità in un brusio di fondo. Le preoccupazioni e le speranze che racchiude, però, non sono del tutto nuove. Già nel 1974 René Dumont, candidato alle elezioni presidenziali francesi per il neonato partito ecologista, si mostrava alla televisione nazionale in una posa composta, l’espressione grave e in mano un bicchier d’acqua: «Presto non ne avremo più», affermava, «ed è per questo che ne bevo un bicchiere davanti a voi, per raccontarvi quanto diventerà preziosa entro la fine del secolo». Dumont ottenne solo l’1,3% dei voti – vinse il raffinato centrista Valéry Giscard d’Estaing – e venne accusato di catastrofismo dagli avversari politici e da un’opinione pubblica la cui consapevolezza ambientale era ancora embrionale. La terribile siccità dell’estate 2022, in Francia ancora più grave che altrove, ha dimostrato la sensatezza della sua profezia e lo ha ricompensato di una visibilità postuma.
Un tocco di tecnologia
Nel 2023 aprirà finalmente le porte al pubblico il nuovo, gigantesco Grand Egyptian Museum del Cairo, che ospiterà più di 100.000 reperti e che ambisce ad attirare almeno cinque milioni di visitatori all’anno. La sua facciata principale è un colossale piano inclinato, inciso e ripiegato in più punti, che protegge un’immensa galleria interna, dove troverà spazio, tra le altre cose, la Statua di Ramses II spostata qui da Giza. Il cantiere lunghissimo del museo, per il quale gli irlandesi Heneghan Peng Architects vinsero il concorso nel 2002, si spiega non solo alla luce delle difficoltà di finanziamento e alle varie controversie suscitate dal progetto sul piano ambientale e culturale, ma anche dalle complessità tecnico-tecnologiche legate alla realizzazione di un’opera di questa scala e complessità in un contesto difficile come il deserto egiziano. Sempre nel 2023, o al più tardi all’inizio del 2024, un altro centro espositivo, il Centre Pompidou di Parigi (Renzo Piano e Richard Rogers, 1969-1977) chiuderà i battenti per permettere la rimozione dell’amianto e il generale aggiornamento delle sue strutture e dei suoi spazi. Uno dei musei più visitati al mondo, il Pompidou è la seconda icona metallica di una città che già dalla fine dell’Ottocento si riconosce nel traliccio della Tour Eiffel. Non ha facciate vere e proprie, ma è una scatola vetrata racchiusa dalle maglie che s’incrociano delle sue travi, pilastri e controventature, degli impianti e delle condutture, delle scale, scale mobili e ascensori attraverso i quali si spostano i visitatori. È l’esempio di un edificio che si identifica con la sua componente tecnologica, precursore della corrente high-tech destinata a grande fortuna negli anni ’80 del Novecento. Il GEM del Cairo nasce obsoleto perché l’entusiasmo per le costruzioni iper-tecnologiche si è esaurito da tempo. In parallelo anche l’approccio diametralmente opposto, di un low-tech integralista che rifiuta qualsiasi dispositivo aggiunto, sta dimostrando rapidamente i suoi limiti. Così, il rapporto con la tecnologia dei migliori progetti contemporanei sembra essere improntato a una nuova ricerca di “misura”: né troppo, né troppo poco. Né divinità né demone, la tecnologia non è il fine ma è uno dei tanti strumenti di trasformazione del mondo.
Dalla natura alla biofilia
“Biofilia”, che significa letteralmente “amore per la vita”, è un termine che si sta imponendo rapidamente nel dibattito contemporaneo sull’architettura e l’ambiente costruito. La progettazione biofilica, ispirata alle teorie elaborate negli anni ’80 dal biologo statunitense Edward Osborne Wilson, vuole configurarsi come una scienza capace di perfezionare il rapporto tra uomo e natura e di garantire il massimo benessere degli occupanti di ogni edificio. Tra le tante archistar italiane e internazionali che stanno esplorando questo campo, ci sono anche Antonio Citterio e Patricia Viel, che stanno applicando i principi della biofilia alla ristrutturazione green della sede ENEL di Roma, uno dei cantieri più interessanti e di grande scala che apriranno nella capitale nei prossimi mesi, per concludersi nel 2024. Più in generale, la natura è dappertutto nelle costruzioni contemporanee. L’architettura di oggi prova a ricorrere a materiali naturali, a dialogare con la natura, a inserirsi rispettosamente nella natura e, soprattutto, a essere essa stessa natura. Per questo si arricchisce di una flora rigogliosa che invade gli spazi comuni e quelli privati, risale lungo le facciate e raggiunge i tetti. Gli edifici sono boschi, foreste, serre, giardini coperti e giardini pensili. Come quello del Lingotto di Torino, l’antica e super-fordista fabbrica FIAT progettata dall’ingegnere Giacomo Matté-Trucco tra il 1915 e il 1922 e trasformata da Renzo Piano dagli anni ’80. Il 2022 è stato il primo anno completo di apertura al pubblico della nuova Pista 500, paesaggio vegetale disegnato da Benedetto Camerana e allungato sui rettilinei dell’ex circuito automobilistico sulla copertura dell’edificio. Il fu tempio dell’automobilismo è diventato un parco: quale migliore testimonianza di un cambio di paradigma. Anche in questo caso è importante non lasciarsi travolgere dai facili entusiasmi – da quella che già nel 2016 Edwin Heathcote, critico di architettura del Financial Times, definiva “green craze” – : esistono tante sfumature di verde, e bisogna sapere distinguere la sostanza dalla pura cosmesi.
Tutto è design!
Dal 2022 funziona a pieno regime una delle migliori realizzazioni del trio Carlana Mezzalira Pentimalli: la Scuola di musica di Bressanone. «Una wunderkammer contemporanea», nelle parole dei suoi progettisti, la scuola è un’architettura che costruisce il suo linguaggio tramite il trattamento raffinato delle sue superfici di calcestruzzo, finemente decorate. Si sfuma così il confine tra progetto urbano – la corte d’ingresso funziona come una piccola piazza pubblica –, architettura e design. Quest’ultimo è un termine ambiguo, che nell’italiano corrente indica soprattutto un settore e una scala – quelli del prodotto e dell’arredo – mentre in inglese, sua lingua d’origine, si riferisce anche al progetto tout court. Ogni spazio e ogni elemento dell’ambiente costruito sono potenzialmente designable, cioè possono essere osservati con uno sguardo critico e proattivo che ne promuove la trasformazione. In questa ambiguità risiede la potenzialità e l’attualità del termine design. Negli anni ’80 il biologo Eugene Stoermer conia il neologismo “antropocene”, poi popolarizzato dal chimico Paul Crutzen, per definire una nuova era geologica in cui le azioni umane hanno un impatto diretto o indiretto su ogni parte del pianeta. Stoermer e Crutzen intendono l’antropocene come una fase degenerativa di distruzione della terra da parte dell’uomo, ma il termine acquisisce presto un’accezione più morbida, assertiva e, per i più ottimisti, un segno positivo: ogni atto di design, compiuto da un’umanità finalmente consapevole, può avere un impatto benefico su un ecosistema-terra in crisi e in cerca di soluzioni. Affinché questo avvenga, il processo deve essere tanto virtuoso quanto il progetto. Un articolo recente di Lidia Gasperoni su Viceversa magazine rifletteva su quali siano i capolavori, i masterpieces di questa nuova era, in cui l’attenzione si sposta dall’oggetto finito al percorso per realizzarlo: «L’antropocene scardina l’idea di un’immaginazione radicalmente individuale e autoriale (…). Il capolavoro deriva piuttosto da un’attitudine sperimentale, capace di ridefinire le conoscenze in senso operativo, e renderle parte della vita in comune».
Costruzioni, arte e bellezza
Tra le immagini dello stadio di San Siro più ricorrenti sui social, da TikTok a Instagram, spicca sicuramente un ormai classico video delle torri cilindriche che contengono le rampe di risalita al terzo anello. Il movimento discendente dei tifosi in uscita dall’edificio determina l’illusione ottica che siano le torri stesse a ruotare, avvitandosi all’infinito. Sarà una delle tante qualità dell’edificio di cui i suoi ammiratori sentiranno la mancanza quando si realizzerà l’ormai incombente progetto di demolizione. È anche una testimonianza del confine sottile e delle sovrapposizioni inaspettate che si realizzano tra termini solo apparentemente lontani del discorso sull’ambiente costruito: infrastruttura, architettura, arte e bellezza. Già il linguaggio dell’ingegneria del Novecento definiva i manufatti che compongono le autostrade (ponti, gallerie, rilevati e trincee) come opere d’arte. Riviste come Autostrade, il raffinatissimo house organ con cui a partire dagli anni ’60 la Società Autostrade raccontava ai suoi interlocutori e agli appassionati del tema l’attualità della rete infrastrutturale di sua competenza, accompagnavano i loro testi con un’iconografia di alta qualità, portfolio di immagini in grande formato e spesso a colori. Le fotografie immortalavano viadotti infiniti e i loro pilastri vertiginosi, le prospettive a perdita d’occhio di lunghissimi rettilinei, le geometrie perfette delle curve di raccordo, i riccioli degli svincoli e delle rampe d’accesso, le superfici liscissime delle carreggiate appena asfaltate e i grovigli di armature in attesa nei tratti ancora in costruzione. Questi scatti attentamente impaginati e talvolta apertamente ispirati alle soluzioni della fotografia colta – non mancano audaci viste sottinsù di memoria costruttivista – rappresentavano le autostrade proprio come opere d’arte. Molte ricerche e mostre recenti hanno ribadito questo legame, ad esempio L’architettura del mondo. Infrastrutture, mobilità, nuovi paesaggi, curata da Alberto Ferlenga nel 2012-2013 alla Triennale di Milano, e Technoscape. L’architettura dell’ingegneria, a cura di Pippo Ciorra e Maristella Casciato, in corso in questi mesi al MAXXI di Roma. Con l’arte il mondo delle costruzioni non condivide il carattere speculativo, for art’s sake, ma solo intendendo la costruzione come arte si può tentare di conciliare i due poli per nulla opposti della maestria tecnico-tecnologica e della bellezza, un virtuosismo per il quale l’Italia moderna vanta una tradizione senza uguali.