Giornalista professionista freelance, ha collaborato con Ansa, QN-Il Giorno e con Wired Italia. Scrive di economia, digitale e sostenibilità, affiancando uffici stampa e agenzie di comunicazione come copywriter e consulente editoriale sui temi della trasformazione digitale e della transizione ecologica. Ha una laurea di secondo grado in Comunicazione all’Università degli Studi di Milano, città dove risiede, e ha conseguito un master in Giornalismo presso l’Università Cattolica.
Un’opera unica al mondo per una città unica al mondo: il MOSE di Venezia
Il 22 novembre 2022 è una data che potrebbe segnare una “case history” per il giornalismo: “Il MOSE salva Venezia” o “Venezia salvata dal MOSE”, che sia in senso transitivo o intransitivo, e con tutte le sfumature nel mezzo, è questo il titolo rimbalzato fra home page e prime pagine per riportare, per una volta, la buona notizia di un disastro sventato, ovvero la potenziale acqua alta sulla città, causata dalla terza marea più alta della storia (184 centimetri). Tutto questo, grazie al buon funzionamento di un’opera dell’ingegno umano in un Paese dove non solo Venezia ma il 94% dei comuni è a rischio di dissesto idrogeologico e a erosione costiera.
Protagonista indiscusso è stato il MOSE, MOdulo Sperimentale Elettromeccanico, sistema di dighe mobili collocate su quattro filari alle bocche di porto di Lido, Malamocco e Chioggia tra il mar Adriatico e la Laguna veneta. Passaggi che, quando la marea si alza oltre il limite stabilito, vengono chiusi attivando le 78 paratoie mobili delle barriere a scomparsa, mantenendo quindi all’asciutto calli, campi e campielli della Serenissima.
Il MOSE è stato attivato per la prima volta il 3 ottobre 2020, un anno dopo l’allagamento di Venezia del novembre 2019, causato da una marea di 187 centimetri, la seconda più alta della storia dopo quella del 1966 (record di 194 centimetri). Il maltempo, i venti di bora e di scirocco e alcune condizioni astronomiche sono tra i fattori che possono aggravare il quadro. Da allora, le paratoie sono state sollevate per 40 volte in 25 mesi e quando l’opera sarà completamente a regime, entrerà in funzione nel caso di maree da 110 centimetri (sono sufficienti 80 centimetri per allagare piazza San Marco).
Il sistema è realizzato al “prezzo chiuso” di 5,4 miliardi di euro concordati nel 2005, ma il MOSE va ancora ultimato (nel 2019 era dato al 93%). Sebbene efficaci nel proteggere la città, quelli effettuati finora sono considerati ancora “test di sollevamento” e il Ministero delle Infrastrutture ha indicato a fine 2023 il completamento delle opere necessarie alla funzionalità delle barriere e a fine 2025 di quelle complementari. Nel 2021, il Governo ha reperito 538 milioni di euro per l’ultima fase dei lavori, l’avviamento, l’esercizio e la manutenzione dell’infrastruttura.
«Il MOSE è un’opera unica al mondo per una città unica al mondo, come Venezia – spiega Mariano Carraro, presidente dell’Ordine degli Ingegneri di Venezia –. Non ne esiste un’altra di questo genere, anche confrontandola con opere similari come quelle sul Tamigi o le dighe sullo Schelda in Olanda, le cui paratoie sono tutte fuori terra con tutti i vantaggi in termini di costi e di manutenzione. Una delle condizioni poste dal “Comitatone” dedicato allo sviluppo del progetto era infatti che in condizioni di marea normale le paratoie non fossero visibili, per garantire la tutela ambientale e paesaggistica della Laguna. Il MOSE ha dimostrato di poter difendere Venezia perché è progettato bene e può diventare un esempio agli occhi del mondo, a patto che venga garantita una manutenzione allo stato dell’arte e continua, come se l’intera infrastruttura fosse un organismo vivente».
L’elemento più scenografico sono le 78 paratoie scatolari metalliche, di colore giallo, vuote all’interno, che emergono dai flutti per fermare le maree. A Chioggia la barriera è composta da 18 paratoie, a Malamocco 19 (la bocca di porto più profonda della laguna) mentre a Lido (larga 820 metri) 21 e 20 su due barriere collegate tra loro da un’isola artificiale. Ciascuna paratoia è larga 20 metri, può essere alta da 18,6 a 30 m e spessa da 3,6 a 5 m.
In condizioni normali le paratoie sono piene d’acqua e restano adagiate sul fondale negli appositi cassoni di alloggiamento, realizzati da Calcestruzzi. Quando l’aria compressa viene immessa nella “scatola”, l’acqua viene espulsa dalla paratoia che, sfruttando la spinta di galleggiamento, inizia a sollevarsi ruotando sull’asse delle due cerniere che la collegano al cassone, fino alla posizione desiderata, mantenendo il dislivello tra laguna e mare, fino a maree di tre metri. Questo dovrebbe consentire di far fronte agli eventi anche nel caso in cui le previsioni più pessimistiche sui cambiamenti climatici dovessero avverarsi, cioè con un innalzamento del livello del mare fino a 60 centimetri nei prossimi cento anni.
La parte meno visibile dell’opera, ma altrettanto imponente e importante, è costituita dai cassoni, veri e propri edifici in calcestruzzo pieni, adagiati all’interno di una trincea scavata sul fondale marino. Questi manufatti sono lunghi 60 metri, larghi dai 36 ai 48 metri e l’altezza va da 8,7 metri fino a 11,55 metri. In totale sono 35: 18 a Lido San Nicolò, 9 a Malamocco e 8 a Chioggia. I cassoni “di soglia” formano l’allineamento di base per lo sbarramento, mentre quelli “di spalla” permettono l’aggancio dell’infrastruttura con la terraferma e ospitano all’interno le discese per l’impiantistica (come i macchinari di compressione dell’aria) e le maestranze. Sono gli unici elementi che fuoriescono dal livello medio del mare, con una forma molto alta (fino a 28 metri) e snella (larghi 24 metri).
Per ogni cassone di soglia sono stati utilizzati circa 10mila metri cubi di calcestruzzo, oltre alle armature. In particolare, per la realizzazione dei muri perimetrali e centrali di 18 cassoni a Lido San Nicolò e Malamocco è stato utilizzato i.idro MARINE CONCRETE un calcestruzzo innovativo a valore aggiunto realizzato da Calcestruzzi spa e sviluppato nei laboratori di Italcementi. Creato appositamente per l’uso in ambienti marini o esposti a particolari condizioni ambientali, questo materiale resiste alle azioni corrosive esercitate da cloruri e solfati, all’azione meccanica delle onde e del bagnasciuga.
i.idro MARINE CONCRETE fu messo a punto nel laboratorio di Brindisi di Italcementi (oggi il laboratorio è chiuso e le attività di ricerca sono svolte presso la sede di Bergamo), dedicato allo studio e sviluppo di tecniche e nuovi materiali per l’incremento dell’affidabilità e della durabilità delle grandi infrastrutture. Dal 2000 fu condotto un progetto di ricerca, con l’Università Federico II di Napoli, per migliorare le conoscenze e le tecniche inerenti la “Durabilità delle strutture in calcestruzzo armato esposte all’ambiente marino e lagunare a clima temperato”. I risultati portarono a ottenere i.idro MARINE CONCRETE.
«Grandi Lavori Fincosit (general contractor, ndr), dopo una serie di analisi e ricerche preliminari scelse di utilizzare per questo cantiere il calcestruzzo i.idro MARINE CONCRETE, un esempio della capacità di trasferire sul mercato da parte di Calcestruzzi lo sforzo di innovazione e di sostenibilità di Italcementi – spiega Alfonso di Bona, Consigliere Delegato di Calcestruzzi spa –. i.idro MARINE CONCRETE fu messo a punto dopo oltre 150 prove nel laboratorio Calcestruzzi di Limena (PD) e ulteriori test presso laboratori esterni. Venne realizzato in tre versioni, con tre tipi di diversi additivi superfluidificanti. Altra peculiarità fu l’aggiunta su tutta la produzione di un agente riduttore di ritiro che minimizza la contrazione del calcestruzzo allo stato indurito. Il prodotto è in grado di garantire, se correttamente messo in opera, una vita di esercizio delle opere di almeno 150/ 200 anni. Come si può immaginare la durabilità è uno degli aspetti-chiave di queste opere, dove la manutenzione è molto più complessa che nelle infrastrutture, per così dire, standard».
La manutenzione sarà infatti un aspetto centrale, per contrastare i fenomeni di corrosione, ruggine e sedimenti, con la sostituzione e la cura delle varie componenti e dell’impiantistica del MOSE. Ogni cinque anni ciascuna paratoia dovrebbe essere sganciata dal suo alloggio con un’apposita imbarcazione (Jack up) o una mega-cavalletta su pontone e portata all’Arsenale di Venezia per interventi di lavaggio, carpenteria, sverniciatura, sabbiatura e riverniciatura. Poi sarà stoccata in attesa di essere ricollocata, mentre al suo posto ne verrà posizionata sul fondale una di ricambio. L’Arsenale ospita anche la control room, centro di gestione che decide l’azionamento delle paratoie.
Ma non è tutto. La città di Venezia dovrà vedersela anche con i fenomeni dell’eustatismo e della subsidenza che interessano la Laguna. Il primo riguarda l’innalzamento del livello del mare, causato dai cambiamenti climatici (9 cm dagli anni ‘70 a oggi). Il secondo è lo sprofondamento del suolo per cause naturali e antropiche, come l’emungimento delle falde acquifere nella zona industriale di Marghera. Tali processi accentuano l’acqua alta e hanno contribuito a far variare nel tempo il livello medio del mare, che attualmente è circa 32 cm (media degli ultimi quindici anni) più alto di quello del 1897 (zero mareografico di Punta Salute). Una soluzione suggerita in ambito scientifico per contrastare la subsidenza (e far lavorare di meno il MOSE) sarebbe per esempio iniettare acqua marina a 600-1.000 metri di profondità con una dozzina di pozzi, per ottenere un innalzamento della superficie stessa della città. Ma per ora si tratta solo di un’ipotesi.
«Il MOSE è stato pensato e progettato per risolvere uno dei problemi che ha Venezia, quello dell’acqua alta. Gli altri temi sono stati tenuti presenti nella progettazione, ma dovranno essere affrontati con altri rimedi e soluzioni – osserva Carraro –. Da un lato, il costo della manutenzione programmata è stato previsto nel progetto e potrà essere contenuto nel lungo periodo se ora si investe correttamente in apparecchiature adeguate, garantendo flussi finanziari necessari al MOSE. Dall’altro, l’innalzamento del livello dei mari è un tema planetario che va oltre l’ambito di Venezia e ha subito un’accelerazione inaspettata. L’ultima COP ha dimostrato che i Paesi del mondo hanno sensibilità diverse sul cambiamento climatico e che non possiamo puntare tutto sulla decarbonizzazione. Presto, quindi anche altre città costiere dovranno pensare a opere di difesa dall’innalzamento del livello del mare. A Venezia il MOSE ha permesso di guadagnare tempo, qualche decina di anni, non di più. Conviene farsi trovare pronti».