Laureato in geologia e con due grandi passioni: la bicicletta e la scrittura. Autore del libro "Tale padre, tale figlio... Lo spero! L'Islanda in bicicletta". Nel tempo libero collabora con riviste, come "VAL" e "Alvento", per la pubblicazione di articoli o di interviste per promuovere il territorio bergamasco e far conoscere personaggi di riferimento dei mondi che più lo affascinano.
Francesca Gagliardi, per creare opportunità sostenibili servono «rigore e libertà»
Architetta classe 1987, lavora nello studio Fondamenta di Milano. Insieme a Federico Rossi ha introdotto, studiato e sperimentato il metodo «The economy of the project». Attualmente è impegnata nello studio del tema della creazione di organismi autonomi, nei quali vorrebbe riuscire a dare forma all’energia in modo totalitario.
In Italia la giungla burocratica, l’intreccio di norme, la confusione di modus operandi diversi e non sempre attualizzati o in linea tra di loro, può disorientare la figura dell’architetto e sotterrare la sua importanza nel processo di progettazione, realizzazione e organizzazione degli spazi. Il declino della figura principe di questa disciplina, che dovrebbe guidare, coordinare e far dialogare tutte le altre, spinge spesso giovani architetti italiani a riporre le proprie ambizioni o a cercarle al di fuori del Paese.
Francesca Gagliardi e Federico Rossi, entrambi nati nel 1987, e laureati all’accademia di architettura di Mendrisio, si sono muniti di falce per farsi strada nella giungla, perseguendo il sogno di crearsi le giuste opportunità in Italia, rifiutando di sopperire alle consuetudini di un sistema non sempre al passo coi tempi. Per sopravvivere, hanno introdotto, studiato e sperimentato il metodo rigoroso «The economy of the project», che hanno anche condiviso con gli studenti all’ETH, l’Istituto Politecnico di Zurigo, nell’omonimo corso di progettazione.
«Ci vogliono curiosità, studio e dedizione. In Italia, il tasso di architetti laureati e disoccupati è preoccupante, ma come nei marmi e nelle pietre ci sono alcune vene molto nascoste che vale la pena ricercare e scoprire». Queste le parole al centro della mia chiacchierata con Francesca.
Francesca, raccontami un po’ di te, del tuo percorso accademico e professionale.
«Sono nata a Milano nel 1987, e ho vissuto a Torino, ma sono originaria di Bergamo. Ho aperto lo studio Fondamenta nel 2016, insieme a Federico Rossi. Ci siamo laureati entrambi in Svizzera, presso l’Accademia di architettura di Mendrisio nel 2012. Dopo la laurea, abbiamo fatto esperienze diverse all’estero: Federico subito da Christian Kerez a Zurigo, mentre io l’ho raggiunto dopo un’esperienza presso Ensamble Studio di Madrid. A Zurigo abbiamo lavorato insieme da Christina Kerez per un concorso in Cina, dopo il quale abbiamo deciso di tornare in Italia con il desiderio di costruire architettura in Italia. Sentivamo l’esigenza di farlo, perché credevamo e crediamo che in Italia ci sia necessità di ridare importanza al ruolo dell’architetto. Noi crediamo nella figura dell’architetto vitruviano, parte attiva e centrale nella governance del progetto. Siamo tornati in Italia con l’ambizione di difendere l’architettura all’interno dell’intero processo. La nostra prerogativa è che qualsiasi lavoro o concorso abbia come fine ultimo la costruzione di spazi».
Questa crescente marginalità dell’architetto nel contesto italiano l’avete vissuta e scoperta sulla vostra pelle, e invece che demoralizzarvi, vi ha spinto a cercare una strada concreta per perseguire il vostro obiettivo.
«Nel 2016 abbiamo ricevuto la grande opportunità di costruire la Cantina dei 5 Sogni di Monforte d’Alba, per la quale saremo sempre grati. Innanzitutto, per la fiducia ricevuta, non avendo ancora alcuna referenza, e poi per averci aperto gli occhi sulla disastrosa condizione in cui devono operare gli architetti italiani, da ormai 50 anni. La progettazione iniziale e la realizzazione della cantina vinicola nuda e cruda sono filate lisce, grazie all’apporto della tecnologia, mentre l’intervento e l’implementazione successivi delle altre discipline, tra cui l’impiantistica, hanno messo a dura prova l’architettura, costretta in itinere a subire gli altri ruoli e i consulenti esterni. Da quest’esperienza nasce la necessità di creare un nostro metodo, “The economy of the project”, che continuiamo a investigare e a sviluppare, e che ha contribuito a creare l’opportunità di costruire in Italia».
Avete messo le fondamenta, appunto, necessarie a sostenere la carriera che avevate deciso di costruirvi in Italia. Le avete sintetizzate nel vostro metodo. Vorresti provare a spiegarmelo?
«Si tratta di un metodo rigoroso basato su due concetti essenziali: governance e contesto. La governance dell’architetto prevede che sia lui ad assumersi la responsabilità di tutte le discipline che concorrono alla progettazione, con l’aiuto di strumenti tecnologici, come i software BIM. Lavoriamo con un modello madre che creiamo e gestiamo noi nel quale ogni nostro consulente deve integrare la propria parte rispettando il linguaggio universale che gli condividiamo. Dobbiamo avere la consapevolezza economica e temporale di ogni singola linea, molti dei nostri clienti vengono dal mondo della finanza. Dobbiamo parlare il loro stesso linguaggio, fatto di numeri, budget e scadenze. Il contesto all’interno del quale ci muoviamo è composto da più clusters riassumibili in normativo, real estate, agenti ambientali, tecnologico e materiale inteso come sostanza. Il nostro metodo rigoroso ci ha permesso di fare dei limiti normativi, e dei vincoli economici, la nostra forza e vantaggio competitivo».
Avete sviluppato questo vostro modus operandi per poter lavorare in Italia. All’estero non ne avreste sentito la necessità?
«La metodologia è nata nel contesto italiano in cui lavoriamo, per contrastare l’indisciplina diffusa delle varie figure coinvolte, che può essere causa di imprevedibile ritardo, di mancato rispetto del budget del cliente e soprattutto può compromettere l’architettura. In Svizzera è diverso, perché la burocrazia è più snella, il quadro normativo è chiaro e dati e informazioni sono permeabili e facilmente reperibili. Ad esempio, il punto di partenza di ogni lavoro sono le analisi del suolo, necessarie per ottimizzare le fondazioni. In Svizzera è possibile recuperare tutti i disegni e le mappe geologiche da un portale, che è disponibile e uguale per l’intero territorio».
Abbandoniamo per un attimo rigore e metodo, e torniamo alle origini. Come mai hai approcciato l’architettura?
«Il mio nonno bergamasco, con il quale ho sempre avuto un legame molto forte, era un ingegnere edile. Lo ascoltavo e seguivo spesso. Anche mia mamma era architetto. In realtà, dopo la maturità ero indecisa tra cardiochirurgia e architettura e ho seguito il consiglio del nonno, che andò in visita all’università di Mendrisio e ne rimase colpito. La vera passione per l’architettura è sorta durante l’università».
A proposito di università, qualche consiglio da lasciare ai giovani che si affacciano a questo mondo?
«Ci vogliono curiosità, studio e dedizione. Le opportunità in Italia ci sono, anche se non vengono dallo Stato o dal contesto economico politico. In Italia, il tasso architetti laureati e disoccupati è preoccupante, ma, come nei marmi e nelle pietre, ci sono alcune vene molto nascoste che vale la pena ricercare e scoprire. Per farlo, serve metodo. Per poi trasformare questo metodo in spazio architettonico ci vuole della magia. Il lavoro dell’architetto porta con sé un dovere sociale e politico e il declino di questo ruolo in Italia è per me un grande dispiacere. In altri Paesi europei, il ruolo dell’architetto è meno marginale. Comunque, non bisogna smettere di crederci, bisogna entrare in contatto con tutte le discipline, che riguardano l’architettura direttamente o indirettamente, e dalle quali dipende la sostenibilità dell’intero processo, che richiede tecnologia ed efficientamento a ogni livello. Noi abbiamo voluto condividerlo ai nostri studenti al politecnico di Zurigo. Ora abbiamo deciso di prendere una pausa dalla docenza, perché sentiamo il bisogno di continuare a ricercare, investigare e sperimentare questo metodo e possibili nuove traduzioni architettoniche. In futuro vorremmo insegnare in Italia, con i giusti strumenti, perché crediamo molto nel legame tra mondo professionale e accademico».
Hai parlato di sostenibilità a vari livelli. In primis, l’efficientamento del processo grazie alla gestione e al controllo, tipico di aziende e multinazionali. Altri aspetti che ritenete importanti?
«Sicuramente le persone e l’efficienza del loro lavoro. Incentiviamo i nostri collaboratori a ottimizzare l’utilizzo del proprio tempo, ad esempio invitandoli a tenere sotto controllo il loro tempo durante il corso della giornata. Inoltre, ragioniamo per obiettivi, sia in ufficio che in cantiere. Per noi è importante che la nostra mente come quella dei nostri collaboratori sia libera e fresca, perché il nostro compito è quello di creare spazi in cui le persone vivono e stanno bene».
Anche la scelta dei materiali rientra nel vostro concetto di sostenibilità?
«Noi scegliamo i materiali che sono reperibili e disponibili in loco, a km 0, e cerchiamo di estrapolarne il massimo. Noi siamo interessati non tanto alla materia in sé, quanto al vuoto che la modellazione della stessa genera. In Val di Noto, in Sicilia, abbiamo realizzato degli edifici residenziali, immersi in un contesto agricolo rurale e povero, utilizzando cemento e pietre locali, provenienti rispettivamente da un cementificio e da una cava di pietre, situati a pochi chilometri di distanza. Il calcestruzzo è un materiale molto malleabile e che ci ha permesso di creare le infrastrutture di paesaggio toccando il terreno con meno punti di contatto possibili, rispettando così la permeabilità del suolo e i vincoli idrogeologici. L’utilizzo della pietra è stata invece una grande sfida, che ci ha affascinato, perché erano decenni che quella pietra non veniva usata a livello strutturale, ma grazie a tecnica e tecnologie moderne ci siamo riusciti, nonostante fossimo in zona sismica 1».
Un altro progetto molto interessante che avete realizzato è il Flagship store SO-LE all’interno dell’antico seminario arcivescovile riqualificato dall’architetto Michele De Lucchi.
«Il flagship store di Mariasole Ferragamo è un piccolo negozio di 50 m2 a Milano, e per noi è stata la prima esperienza nel mondo del retail, che significa dover rispettare tempi strettissimi per la costruzione di un edifico. Mariasole ci ha chiesto di tradurre in spazio i principi generatori dei suoi gioielli, quali per esempio la distorsione e l’illusione. Gioielli intesi come architetture del corpo. Abbiamo sperimentato la nostra fascinazione per una specifica ricerca e siamo riusciti a creare uno spazio capace di contenere i prodotti senza alcuna barriera tra loro e le persone. Volevamo che la superficie generatrice del vuoto fosse l’espositrice stessa. Abbiamo affrontato il lavoro con lo stesso metodo di tutti gli altri, partendo dallo studio del contesto e dei suoi cinque fattori chiave, sperimentando molti strumenti tecnologici e abbiamo concluso il lavoro in 4 mesi e mezzo, con costruzione in sito in soli 5 giorni».
Quali sono le prossime sfide all’orizzonte?
«Da qualche anno, un tema importante di studio dell’ufficio è la creazione di organismi autonomi, nei quali vorremmo riuscire a dare forma all’energia, in modo totalitario. L’uso corretto degli agenti ambientali come vento, sole e acqua, integrati nell’architettura secondo la nostra visione, rientra anch’esso nell’ambito della sostenibilità, al quale guardiamo con grande fiducia».
Fiducia è la parola giusta, per descrivere giovani professionisti italiani che decidono di affrontare le difficoltà di un ambito apparentemente rigido e restio al cambiamento, come quello dell’architettura italiana, analizzandone limiti e ostacoli, e sviluppando e sperimentando un metodo che gli permetta costruire un futuro sostenibile nel Paese natale. «Per farlo, servono metodo, rigore, e anche libertà».