Laureata in Culture Moderne Comparate presso l’Università degli Studi di Bergamo con una tesi inerente le esperienze museografiche delle valli bergamasche, ha proseguito il suo lavoro d’indagine con la pubblicazione di articoli ed è stata co-curatrice del numero 21 di Elephant&Castle, monografico sul futuro dei musei. Dal 2018 è parte del comitato organizzativo dell’associazione Nature, Art & Habitat Residency, per la quale nel giugno 2019 è stata coordinatrice del Workshop “Grasses and Pastures: Imagining a regenerative Economy of Cheese“. Collabora con il Consorzio per la Tutela dello Strachìtunt Valtaleggio nel campo dell’informazione e promozione prodotti di qualità. Dal 2020 è membro del comitato scientifico del Museo Ca' Martì, il museo e la valle dei muratori. Attenta ai temi della valorizzazione territoriale, nello specifico del contesto Orobico, ha collaborato con diversi enti locali e musei.
Passeggiando per le Prealpi lombarde, a fianco dei sentieri o nel folto dei boschi addossati ai crinali, si intravedono spesso dei ruderi circolari disfatti a cui non sappiamo dare un senso. Quando siamo più fortunati queste strutture sono accompagnate da indicazioni che le segnalano come calchere: forni utilizzati per la produzione della calce, impiegata in edilizia come legante dei materiali da costruzione e l’intonacatura degli edifici.
Sulle Prealpi Orobiche, calcaree e dolomitiche, sono molti i resti di queste strutture. Se ne trovano nel Parco della Grigna Settentrionale; lungo il periplo del Resegone; in Valle San Martino, a Carenno lungo il percorso esterno di “Ca’ Martì – Il Museo e la Valle dei Muratori”. Il Gruppo Sentieri Amici della Storia della Val Brembilla da qualche anno è impegnato in un censimento delle antiche fornaci da calce brembillesi, ad esempio quelle della Valle dei Suoli; mentre in Valle Brembana da segnalare è la calchera del Monte Disner. In Alta Valle Seriana nel 1700 erano circa una quarantina le strutture attive e di alcune rimangono le tracce. In Val di Scalve si può ricordare quella in Località Pian di Vione a Colere.
L’origine della manifattura della calce è incerta, la si fa risalire all’età neolitica in Mesopotamia, dove vennero realizzati i primi forni verticali da calce. È solo dall’epoca romana che si hanno descrizioni e resti di forni più sofisticati, costruiti con mattoni di argilla, isolanti e refrattari. Questi erano più simili ai moderni altiforni che alle rustiche strutture a tino seminterrate, che nelle aree rurali rimasero in auge fino ai primi decenni del XX secolo, ben dopo la diffusione del rivoluzionario cemento, scoperto alla fine dell’Ottocento.
In Lombardia è nella fascia delle Prealpi lombarde che si trovano le materie prime per l’ottenimento della calce: le rocce sedimentarie carbonatiche delle formazioni calcaree e dolomitiche. Quasi ogni paese dove fossero presenti queste tipologie di pietre aveva la propria calchera, che serviva soprattutto per l’utilizzo locale. Non tutta la calce che veniva prodotta era infatti di alta qualità, la stessa dipendeva, oltre che dalla materia prima utilizzata, anche dai metodi di lavorazione e dall’abilità e dall’esperienza dei costruttori, detti calcherot, che basavano le proprie competenze su saperi gelosamente custoditi.
Il luogo per l’edificazione delle calchere veniva scelto in funzione sia della disponibilità delle materie prime, oltre che alla vicinanza degli edifici in costruzione. Le calchere avevano forma a tino, con base del diametro di 2-3 metri, parzialmente scavate nel terreno e rivestite a secco in pietrame refrattario, anche se spesso si utilizzavano ugualmente blocchi calcarei, con la conseguenza di avere strutture che subivano un rapido degrado.
Il riempimento avveniva incastrando pietre calcaree, costituite in prevalenza da carbonato di calcio, di dimensioni sempre più piccole fino a creare un mucchio semi conico, che veniva ricoperto da terra bagnata e fogliame in modo da ottenere una copertura adatta a proteggere dagli agenti atmosferici, nella quale venivano praticati dei fori per favorire la circolazione dell’aria. Prima di accatastare le pietre, si provvedeva a riempire una camera di combustione proprio sotto la catasta di sassi: un’apertura aveva lo scopo di permettere l’ingresso di aria per la combustione, oltre che l’accensione del fuoco, che doveva essere mantenuto ininterrottamente vivo con una enorme quantità di fascine di legna. Durante la cottura, a una temperatura tra gli 800 e i 1000 gradi, avveniva la decomposizione termica delle rocce con emissione di biossido di carbonio. La durata della stessa variava a seconda di vari fattori: il clima, il tipo di legname impiegato, la qualità della costruzione e le dimensioni della calchera. Per controllare lo stato di cottura si prendeva uno dei sassi e lo si buttava nell’acqua fredda per verificarne la reazione, oppure si tentava di forare una pietra utilizzando un apposito punteruolo di ferro: se si riusciva a penetrarlo, la calce era pronta. Anche il colore delle fiamme e del fumo, oltre all’odore, potevano indicare quando era giunta l’ora di sigillare ogni apertura e attendere il raffreddamento.
Quindi si procedeva all’abbattimento dell’apertura murata e della parte alta, cominciando a tirare fuori le pietre calcinate a partire dalla sommità, tramite un lavoro di estrazione che era molto delicato e pericoloso. La calce veniva quindi gettata in una fossa scavata nel terreno e irrorata d’acqua, provocando la reazione chimica al termine della quale la calce da “viva” diventava “spenta”, idrossido di calcio da cui, aggiungendo in un secondo tempo ancora acqua, si otteneva il “grassello di calce” usato per preparare la malta, che è calce spenta mescolata con sabbia e acqua, impiegata nell’edilizia come legante perché, dopo un certo tempo, “fa presa”, cioè indurisce perché l’idrossido di calcio combinandosi con l’anidride carbonica dell’aria si trasforma in cristalli di carbonato di calcio che legano i materiali da costruzione. Aumentando ulteriormente la diluizione dell’idrossido di calcio, si ottiene quello che veniva chiamato il “latte di calce”, un liquido usato per imbiancare e disinfettare. Il prodotto finale era spesso conservato in apposite fosse destinate al consumo famigliare o di vicinato.
Il passaggio dalle calchere al più efficiente sistema produttivo delle fornaci è testimoniato nei primi decenni del Settecento, quando si iniziò a fare una netta distinzione qualitativa tra la “calcina di fornace” e la “calcina di calchera”, molto meno apprezzata. La differenza di qualità tra i due tipi di calce dipendeva quasi esclusivamente dalle differenti modalità di cottura. Le calchere, nonostante tutti i possibili accorgimenti, producevano cotture eterogenee e spesso incomplete del materiale. Le fornaci invece avevano una struttura differente, la cui parte esterna era realizzata con materiale refrattario, che garantiva il mantenimento costante della temperatura e la completa calcinazione.
Il motivo per cui, fino agli inizi del Novecento, nelle aree rurali si mantenne viva la tradizione dell’utilizzo delle calchere, è probabilmente dovuto alla facile reperibilità dei materiali e alla necessità di poter costruire strutture destinate a un uso limitato in specifici contesti, onde evitare la fatica del trasporto del materiale, quale legna e pietra. Un sistema dispendioso in termini di tempo ed energie, ma che permetteva di sfruttare materie prime facilmente reperibili e che contribuiva, insieme alla tecnica per la fabbricazione del carbone nei poiàt, a caratterizzare il panorama forestale delle Prealpi lombarde, oggi radicalmente mutato.
Fotografie a cura di Sara Invernizzi e Alessia Scaglia.