Enrico Ratto è nato a Genova nel 1980. Laureato in Sociologia presso l'Università Milano - Bicocca, da vent'anni affianca l'attività giornalistica a quella di imprenditore. Nel 2014 fonda il magazine Maledetti Fotografi, dove pubblica, in cinque anni, cento interviste con i più grandi autori italiani e internazionali. Scrive di fotografia con il magazine Il Fotografo. Collabora regolarmente sui temi di architettura, design e urbanistica con Rivista Studio. Vive tra la Liguria e il sud della Francia.
Gli svincoli micidiali di Genova, il Ponte Morandi crollato il 14 agosto 2018 e ricostruito con rapidità – ma non con la fretta, come ha detto l’architetto Renzo Piano – in meno di due anni, ha dato ai genovesi almeno due certezze: Genova è una città che sa reagire e Genova è una città da cui si parte, e si ritorna, attraverso un ponte. Perché è questo che è sempre interessato ai genovesi: una strada per andarsene e una per ritornare. C’è anche una terza cosa: Genova è una città talmente complessa e articolata, dall’impianto urbanistico alle dinamiche sociali, che non può essere sintetizzata in una sola definizione, impossibile rispondere alle domande di questa città con le certezze. «È come un meccanismo di orologeria» riflette Maurizio Maggiani, scrittore, che a Genova è arrivato per la prima volta a sei anni, un bambino che, una notte, su una Fiat Topolino viene portato all’ospedale Gaslini, e che ancora oggi ricorda quel viaggio come un sogno, l’arrivo nella città dei grattacieli in cemento armato, dei ponti in cemento armato, il laboratorio del Nord Italia dove si sperimentava la modernità. «La complicazione è la delicatezza di questa città, un meccanismo estremamente sofisticato» continua Maggiani «d’altra parte, solo l’idea di costruire su questa falesia smozzicata è folle. Dopo quel viaggio da bambino, per anni ho sognato questo luogo fantastico, questa città futura».
Il 14 agosto 2018 è crollata l’opera di Riccardo Morandi, per mezzo secolo considerata un capolavoro di ingegneria, tra le opere più originali del patrimonio infrastrutturale italiano. Ed è un peccato che, dopo quella mattina di agosto, il nome di questo progettista, tra i più attivi nel dopoguerra con almeno 200 ponti realizzati in Italia e all’estero, possa essere legato alla tragedia del viadotto sulla Val Polcevera. Il giorno successivo, un architetto mosso da un profondo legame per la sua città, Renzo Piano, è tornato qui, nel suo studio affacciato sul Mar Ligure, per fare ciò che sapeva fare: disegnare, progettare, immaginare la soluzione del problema. «Ricordo bene Renzo Piano, due o tre giorni dopo Ferragosto» dice Maggiani «Ci siamo incontrati, aveva questo blocco di fogli in mano e continuava a disegnare ossessivamente, era il progetto di quel nuovo ponte, quello che sarebbe diventato il Ponte San Giorgio. Si è messo a disposizione per ricostruire quello che era anche il suo sogno».
Una rampa di lancio, così Maggiani ha spesso sognato il ponte, per consentire a Genova di tornare a essere la città da cui andare ovunque nel mondo, ed essere il luogo dove tutto il mondo va. «C’è di tutto come a Genova», pronunciata in dialetto stretto, è una frase ricorrente tra i liguri, e si dice così perché in questa città portuale, cresciuta sulle regole porto e non viceversa, puoi trovare tutto, dalle persone, alle merci, alle contraddizioni. «E quindi, che relazione c’è tra il ponte e i genovesi?» riflette Maggiani «Che senza quel ponte, i genovesi non vanno da nessuna parte. Ora, non è escluso, anzi io ho la certezza, che ci sia una parte della città che non voglia andare da nessuna parte. Ma c’è una parte dei genovesi, io tra loro, che desiderano andare via e tornare a Genova».
Nei due anni della demolizione e della ricostruzione, questo disegno ha preso forma tramite il lavoro delle gru e gli uomini che, ventiquattr’ore al giorno, sembravano replicare il lavoro del porto lì vicino. Ogni minuto di questo meccanismo complesso, d’orologeria appunto, è stato raccontato, ripreso e fotografato. Tra chi lo ha documentato c’è Gianni Berengo Gardin, tra i più grandi fotografi italiani del ‘900, nato in Liguria, vissuto a Milano ma che ritroviamo spesso – da Genova si va e si viene, appunto – nella sua casa di Camogli, tra gli ulivi e il mare. «È senza dubbio un ponte ligure, un ponte genovese» osserva Berengo Gardin «La cosa che più mi ha colpito è la sua semplicità. Non è un ponte complicato, è lineare, è molto sostanzioso. Tanta sostanza e niente cose inutili». Un ponte appoggiato sui piloni, non più sospeso con i tiranti perché, è ancora Maurizio Maggiani a dirlo «i genovesi, se non riescono a stare diritti con i piedi per terra, sono finiti. Cosa vogliamo sospendere tra questi dirupi? Dobbiamo avere l’accortezza, e anche l’eleganza, di piantare bene i piedi in quel poco di terra che c’è».
La terra a Genova è un elemento scarso e da maneggiare con cura, una striscia stretta qualche centinaio di metri e lunga più di trenta chilometri. Talmente lunga che c’è un solo punto da cui si può vedere la città nella sua interezza: quel punto è in mezzo al mare, appena superata la linea dell’orizzonte. Lia Piano, figlia dell’architetto che sui suoi blocchi ha disegnato il nuovo ponte San Giorgio, direttore editoriale della Fondazione Renzo Piano e scrittrice, descrive questo punto nel suo libro Planimetria di una famiglia felice (Bompiani). «Genova era vera, solo che da terra si nascondeva. Era sempre uno spicchio tra le case, il lampo che si affaccia un istante tra i vicoli per svanire subito, come le ombre cinesi di papà sul muro. Era grandissima. (…) Non finiva mai. In alto, sulle colline, luccicavano fortezze, santuari e un bosco di antenne». Lia Piano, se deve fare un bilancio, ha vissuto gran parte della sua vita a Parigi, racconta che è quasi letteralmente nata nel cantiere del Centre Pompidou. Anche per lei Genova «è una città complessa urbanisticamente, nata in un territorio stretto, con le montagne molto vicine al mare, e un mare che diventa subito profondo. Ed è complessa anche nelle relazioni che crea. Per me è stato complesso restare a Genova, è stato difficile partire, è stato difficile tornare. Ed è crescendo che mi sono scoperta genovese. Si parla spesso di questa parsimonia genovese, che è anche una parsimonia emotiva, e che io sono convinta che sia una forma di dignità. Ho visto la reazione dignitosa che ha avuto la città rispetto alla tragedia del crollo del Ponte Morandi. Una grande compostezza nell’affrontare la tragedia, nell’affrontare tutti i disagi che questo periodo ha portato, e una grande compostezza nel non voler salutare l’inaugurazione del nuovo ponte con un festeggiamento. I toni trionfalistici sono estranei a questa città. Questa è una prova di parsimonia emotiva che considero una qualità, è avere sempre una giusta gerarchia dei sentimenti. La gioia e la soddisfazione di aver compiuto un lavoro, di essere chiamati “modello Genova” non fanno dimenticare il fatto che sarebbe stato infinitamente meglio non dover costruire il nuovo Ponte San Giorgio. Da buoni liguri, tutti abbiamo presente questo atteggiamento, a partire dai progettisti, da mio padre, dagli operai che hanno lavorato in cantiere. Questa compostezza, per me, è stata una bellissima cosa da riscoprire, soprattutto in questo mondo che tende continuamente al clamore».
«Stiamo parlando di quarantatré persone che hanno perso la vita» ricorda Francesca Baraghini, giornalista genovese, oggi a Sky «Tutte le volte che noi passiamo sul nuovo ponte, nessuno di noi dimentica quello che è successo. Nella cronaca giornalistica si usa l’espressione “incidente spettacolare”, ma io detesto questa espressione. E credo che la detestino in molti a Genova. I genovesi hanno delle tradizioni. Per citare Italo Calvino, quando si domanda se è la città che fa le persone o se sono le persone a fare le città, secondo me è Genova che fa le persone. Se tu vai nella valle sotto il ponte, la Val Polcevera, un luogo che io amo molto e dove sono nata, si osserva una mentalità che resta il più distante possibile dai trionfalismi».
Il Ponte San Giorgio è un ponte di mare, più che di terra. È al mare che ha pensato Renzo Piano mentre lo immaginava: la forma di una nave, il colore bianco, la luce che si riflette sull’acciaio in modo diverso nelle diverse ore della giornata. «A quale elemento del mare mi fa pensare il nuovo ponte?» si domanda Francesca Baraghini «C’è un aspetto particolare legato alla luce. Genova, per la sua posizione particolare rispetto al mare, ha una luce bianca. C’è un momento, quando tu sei in mare, la mattina, quando fa molto caldo, in cui si alza un’aria salina che ti annebbia un po’ la vista. È quella foschia, quel sale di mare che ti entra negli occhi. Quando passo su questo nuovo ponte, che è una costruzione bianca, è come se questo ponte non ci fosse, come se si fondesse nella luce della città. Sento così questa sensazione di aria salina, per cui esiste soltanto la carreggiata, la Val Polcevera sotto, il mare, ma il ponte è come se si mettesse da parte, e ti permette così di esistere».
Arianna Minoretti, ingegnere italiano che da anni lavora per il governo norvegese sul progetto dei ponti che attraversano i fiordi toccati dalla strada europea E39, riconosce un grande valore al Ponte San Giorgio: architettura e ingegneria hanno lavorato fianco a fianco, ricercando la coerenza e il valore – altissimo – della funzionalità. «Se pensiamo a quello che è accaduto, al crollo di una struttura così imponente e importante per la cultura ingegneristica italiana, la scelta sarebbe potuta ricadere su qualcosa di più appariscente. Abbiamo infatti la tendenza a lavorare sulla superficie delle cose, sull’impatto visivo» spiega «al contrario, questo nuovo ponte è un esempio molto ben riuscito dell’unione tra architettura e ingegneria, un ponte perfettamente inserito nel nostro tempo. Il tempo del Morandi è stato segnato dalla ricerca applicata, quel ponte era un simbolo dell’Italia proiettata verso un certo futuro. Il Ponte di Renzo Piano non soltanto è funzionale, ma è un’opera che applica la migliore tecnologia disponibile in questa epoca, ottimizzandola e mettendola al servizio dei cittadini». Tecnologia significa anche scelta e utilizzo dei materiali, e il materiale è cultura di un luogo. In questo caso l’unione tra calcestruzzo e acciaio segna una continuità storica. Secondo Arianna Minoretti «è importante che non sia stato rinnegato il calcestruzzo, per colpe che non erano sue. Sappiamo che i problemi sono stati di altro genere, prima di tutto la manutenzione nel tempo. È un ponte dove il calcestruzzo, accoppiato alla soluzione dell’acciaio per tempistiche costruttive, è di nuovo protagonista, e questo è molto importante per la cultura ingegneristica italiana. Questo materiale fa parte della nostra cultura ingegneristica fino dalla sua nascita».
La cultura del luogo, dei materiali, l’aderenza al proprio tempo e la presa di distanza dalle facili spettacolarizzazioni estetiche. È un approccio che ha apprezzato anche Giuseppe Costa. Presidente di Costa Edutainment, la società che controlla l’Acquario di Genova, dalla sua famiglia è nato l’impero di Costa Crociere. «Per mezzo secolo abbiamo avuto un ponte disegnato da un grande ingegnere del secolo scorso» dice Giuseppe Costa «adesso abbiamo un ponte progettato da un genio contemporaneo. Guardo questi piloni intercalati passo a passo e penso che, anziché fare un ponte con campate più lunghe, come sarebbe stato possibile da un punto di vista tecnico, sembra si sia voluto rappresentare lo spirito dei genovesi e della città: facciamo i passi che ci possiamo permettere».
Lo chiamano “spirito dei genovesi e della città”, ed è quella cosa che, quando è stata sintetizzata in uno slogan, hanno usato la definizione “modello Genova”. «Ho osservato da vicino tutta l’avventura di questo ponte» dice Lia Piano «e ho capito che il vero modello Genova è stato quello umano, la reazione composta prima, durante e dopo. La lezione da tener presente è questa, il modello umano che non ha nulla da vedere con la gestione, con la politica, ma è qualcosa che si pone al di sopra, su un altro livello. Si è parlato del “miracolo”, senz’altro se ne è parlato in una accezione positiva, ma preferisco pensare che questa è stata un’esperienza di impegno e di competenza. Ogni volta che mi è capitato di andare sul cantiere, e non ci sono andata spesso proprio perché in questi contesti sono molto più importanti le competenze che i cognomi, questo parlare di miracolo l’ho trovato riduttivo rispetto a una avventura che è stata tutta umana e di fatica. In questo cantiere hanno lavorato 1180 persone, 38 professioni diverse. “Modello” e “miracolo” sono definizioni che sicuramente non sono nate da un genovese. Un genovese non ne avrebbe parlato in questi termini. È stata una grande sfida di serietà, a tutti i livelli».
Il “modello Genova” è più legato al pragmatismo che alla gestione politica e finanziaria. «Come ha sempre detto Marco Bucci, il sindaco di Genova» osserva Giuseppe Costa «sono state solo applicate le norme europee. Si è riusciti a lavorare nello stesso tempo su diversi fronti, con un approccio molto manageriale. Sia durante tutte le fasi della demolizione del Ponte Morandi, sia durante la ricostruzione, non si è aspettato di terminare il primo step per passare al secondo, ma tutto è stato mandato avanti in parallelo. Quando si parla della capacità di finanziaria che ha sostenuto, e agevolato, il cosiddetto modello Genova, penso solo che tante opere italiane abbiano il portafoglio pieno, ma non sempre vanno a buon fine».
«Non è stato un esercizio di bravura, ma un esercizio di competenza» sintetizza Lia Piano, consapevole che la ricostruzione del ponte è stata la prima pietra. C’è un’area immensa, la valle sotto il nuovo Ponte San Giorgio, che potrà essere riqualificata per creare uno di quegli spazi pubblici – e verdi – che mancano alla città, e che possono traghettare Genova dalla modernità alla contemporaneità. Anche se, forse, Genova non è mai stata interessata al contemporaneo, come osserva Maggiani «gli svincoli micidiali, questa tortuosità, questa difficoltà di accesso e di uscita, possono dare un’idea del rifiuto che ha questa città per il contemporaneo, per quello che le viene imposto dalle vicende dell’oggi». «Dopo aver visto che cosa si considera contemporaneo in molte città, mi verrebbe quasi da non augurarglielo, di essere contemporanea» gli fa eco, con ironia, Lia Piano «Al di là di queste considerazioni, si è parlato molto di quello che è successo sopra il ponte, ma la vera occasione, per Genova, è ciò che succederà sotto il ponte. Adesso che Genova è tornata tutta intera, finalmente, quella parte della città, che è sempre stata un’area dimenticata, casuale nella viabilità, nell’utilizzo degli spazi, una valle che valeva poco, potrà vivere una nuova vita sotto tutti i punti di vista, è questa la direzione in cui guardare. Questo significa riappropriarsi degli spazi e penso che, per fortuna, la quota di felicità di uno spazio, o di una città, non è generato dall’opinione dei critici, dei politici, ma da come la vivono i suoi cittadini».
Oltre a essere uno scrittore, Maurizio Maggiani per anni ha scattato fotografie. Qualche anno fa, le sue foto in bianco e nero della struttura del vecchio Ponte Morandi sono state pubblicate nel libro Mi sono perso a Genova (Feltrinelli). Un libro che, per l’autore, è stata una buona scusa per uscire dai vicoli del centro storico, avventurarsi, imboccare le creuze, i viottoli in salita che dal mare portano verso i monti. «Nessuno oggi ha voglia di ripercorrere queste stradine impervie, ma se lo facesse, proprio sopra la Val Polcevera c’è una via, si chiama Salita della Pietra» racconta Maggiani «Salendo da Salita della Pietra, dietro lo scalo ferroviario di Certosa, c’è una creuza che si infila letteralmente dentro al ponte, come infilarsi nella grande balena del ‘900, come entrare nel grande sogno modernista di un ingegnere del ‘900 che credeva ciecamente nel cemento armato. Per me, percorrere queste strade ha significato potermi avvicinare a questo enorme sogno del secolo scorso. Un sogno sconfitto, certo. Ma, in Salita della Pietra, c’è un signore che vive in una casetta, ha un terrazzo, e da questo terrazzo, lui ha visto crollare il ponte e l’ha visto ricostruire giorno dopo giorno. Ecco, il fatto che esista una piccola casa da cui si può assistere al crollo e alla ricostruzione di un’opera così immensa ci dice quanto sia una metafora complicata questa città».