Laureato presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, dove insegna progettazione architettonica dal 2008 al 2011. Dal 1999 è autore di progetti di architettura, fotografia e comunicazione visiva per aziende e istituzioni pubbliche e private, ricevendo premi a concorsi nazionali e internazionali. Nel 2002 fonda new landscapes (<a href="http://www.newlandscapes.org/">www.newlandscapes.org</a>), studio di progettazione all’interno del quale sono state condotti progetti e ricerche sul rapporto tra l’uomo e l’ambiente, sulla percezione e la valorizzazione dell’immagine e dell’identità del paesaggio contemporaneo e sulla promozione di nuove forme di conoscenza e partecipazione. Dal 2016 è direttore della rivista di architettura e paesaggio Ark. È autore di oltre 50 pubblicazioni, tra libri, saggi e articoli specialistici sull’architettura, il paesaggio e la fotografia.
Architettura brutalista nella provincia italiana: l’esperienza bergamasca
La storia dell’architettura brutalista può essere agilmente presa a modello per raccontare le contraddizioni e le istanze talvolta inconciliabili che attraversano la società occidentale del secondo dopoguerra. Coniato nel 1954 in Gran Bretagna, il brutalismo ha radunato attorno a sé opere che fanno del vigore espressivo e della forza massiva dei manufatti le cifre distintive di una dichiarata integrità, impremeabile ai compromessi e contraddistinta da una radicalità di approcci alla vita e alle relazioni sociali.
È significativo che a rientrare in questa denominazione siano tanto opere d’architettura così come di design industriale prodotte gli anni Cinquanta e Ottanta del XX secolo, dalla Bank of London a Buenos Aires in Argentina di Clorindo Testa (1959-1966) alle Lamborghini Countach (Marcello Gandini, 1971) e LM 002 (1986); dalla Boston City Hall di Gerhard Kallmann, Michael McKinnell e Henry Wood (1968) alla Fiat Panda di Giorgio Guigiaro (1980). Questo differenziato insieme di progetti ci consente di riconoscere, benché sommariamente, due opposti destinatari e fruitori del brutalismo: da un lato l’élite economico-finanziaria e dall’altro un popolo fatto di lavoratori a basso reddito. Benché municipi, biblioteche, sale civiche siano edifici collettivi indirizzati alla società tutta, senza differenze di censo e status, a essere implicitamente contenuto nel messaggio butalista è la volontà di rivolgersi a una società contrassegnata da distinzioni decise, da confini distintamente percepibili: l’irraggiungibilità dei vertici e l’esclusività del lusso da una parte, l’accessibilità democratica di un welfare rivolto ai più vulnerabili che nella forza e nella perentoria funzione di presidio civile dell’architettura brutalista trovano una prova tangibile della certezza che lo Stato e le sue istituzioni siano impegnate in una missione pedagogica e in una programmatica difesa della cittadinanza attraverso la fermezza del diritto e dei valori dell’uguaglianza democratica.
Vi è tuttavia una più remota interpretazione del brutalismo, rinvenibile nell’origine stessa di questa denominazione linguistica ed espressiva, la cui scintilla è stata individuata dalla critica architettonica in Le Corbusier. È in Le Corbusier e in Vers un architecture, il suo celebre libro edito nel 1923, che questa peculiare qualità viene per la prima volta messa in luce. Lo stesso Le Corbusier afferma nel capito del libro “La lezione di Roma”: «Architettura è stabilire rapporti emozionali con materiali grezzi» e prosegue «si impiega pietra, legno, cemento; se ne fanno case, palazzi: questo è costruire. L’ingegnosità lavora. Ma, di colpo, il mio cuore è commosso, sono felice, dico: è bello. Ecco l’architettura. L’arte è qui. La mia casa è pratica. Grazie, come grazie agli ingegneri delle Ferrovie e alla Compagnia dei Telefoni. Non mi avete toccato il cuore. Ma i muri si alzano verso il cielo secondo un ordine che mi commuove. Capisco le vostre intenzioni. Siete dolci, brutali, incantevoli o dignitosi». Nella successione dei quattro aggettivi, e di altrettante qualità inseparabili tra loro, Le Corbusier descrive un’architettura come un precipitato di qualità interdipendenti, fatta di muri insieme “dolci, brutali, incantevoli, dignitosi.”
In quali forme, modi, approcci il brutalismo ha trovato applicazione nell’architettura della provincia italiana? Come è stato accolto nel milieu culturale di città medie e piccole? Quali esiti ha prodotto? E quali tra essi hanno avuto la forza di resistere all’oblio diventando a loro volta brani di una storia dell’architettura affatto minore? Il caso bergamasco è particolarmente rilevante nel rispondere a queste sollecitazioni, per via della sua fiorente storia industriale, legata in maniera significativa alla produzione del cemento – che del brutalismo è la materia e l’espressione più irriducibile -, per la commistione tra imprenditorialità d’oltralpe e un substrato autoctono con una tenace disposizione al lavoro, visto come un orizzonte spirituale, di senso, a cui far corrispondere una rappresentazione architettonica sincera, solida, materica e vigorosa. Sono gli architetti bergamaschi, qui presentati, a intuire queste correlazioni, a modellare nelle casseforme le idee che il brutalismo europeo e americano stava perfezionando, declinandole in una peculiare attitudine locale e adeguandole alle sue specifiche condizioni geografiche. È da qui che possiamo iniziare a rileggere il brutalismo bergamasco di cui questo breve saggio è un’esplorazione. Se la provincia italiana, a Bergamo come altrove, per via della sua collocazione geografica tangente alle centralità culturali del paese, è portata ad addolcire i termini più risolutamente radicali del dibattito sull’architettura e il design, adeguandoli alla misura dei luoghi, al temperamento della gente, è allo stesso tempo vero che i bergamaschi sembrino voler esprimere di sé stessi un peculiare insieme delle qualità elencate da Le Corbusier. Docilità, garbo e sobrietà mescolate a durezza, ruvidità e ostinazione trovano nell’architettura locale più d’una espressione.
In quali architetture bergamasche queste peculiarità appaiono più efficacemente rappresentate? Possiamo individuare sei progetti, accostandoli tra loro così da formare tre dittici ideali attraverso cui individuare possibili assonanze compositive: due edifici concepiti come sistemi aperti e potenzialmente infiniti di piattaforme per la produzione o l’esposizione di manufatti industriali; due edifici compatti e monolitici caratterizzati da originalissimi alfabeti di segni e invenzioni architettoniche; infine, due edifici risolutamente urbani, caratterizzati da un formidabile virtuosismo plastico. Tre dittici, individuati seguendo il variare dei luoghi e delle loro peculiarità geografiche: dal paesaggio aperto di una fabbrica nell’alta pianura alle strade statali della “città diffusa”; dalla periferia urbana al centro consolidato e alle sue complesse stratificazioni. Comune denominatore alle opere qui radunate è una qualità dei progetti sensibile ai contesti, che al brutalismo più intransigente contrappongono una ricerca di un misurato equilibrio con i luoghi. Del brutalismo assumono la volontà, manifesta in quasi tutti i lavori, di esibire la materia grezza del calcestruzzo esposto agli elementi, la elementare e intellegibile concatenazione di masse geometriche chiare e perentorie, l’espressività scultorea, l’esibizione della struttura quale ossatura e regola.
Playgrounds
La Centrale del latte Lactis, progettata da Giandomenico Belotti e Sergio Invernizzi ad Albano Sant’Alessandro (Bergamo) tra il 1961 e il 1969 e l’edificio per esposizione Mobili Bergamo che Baran Ciagà, Giuseppe Gambirasio e Giorgio Zenoni disegnano e costruiscono a Bergamo nel 1968 condividono, pur nella diversità di approcci al progetto, un comune anelito a pensare l’architettura come un suolo artificiale, come un playground dove riconfigurare continuamente impianti produttivi, oggetti, persone, flussi.
Nel progetto di Albano Sant’Alessandro Giandomenico Belotti e Sergio Invernizzi progettano cinque edifici, disposti per assolvere le articolate necessità produttive – portineria, amministrazione, produzione, analisi e stoccaggio del latte a temperatura controllata, rimessa –, definendo una razionale quanto riconoscibile orchestrazione di episodi architettonici. Tra essi a emergere per forza e monumentalità è il padiglione destinato alla produzione. Una aerea pensilina nervata da travi in calcestruzzo armato fuori spessore si appoggia a esili setti allineati sull’asse longitudinale del fabbricato, emergenti a loro volta da un podio sopraelevato e galleggiante sulla pianura. Sottili serramenti in ferro trattengono le superfici a vetri senza interrompere la percezione di un edificio che si afferma come un tempio moderno consacrato all’industria e al lavoro, fermo nella sua ieratica immobilità e insieme flessibile ad accogliere dinamiche riconfigurazioni. La Chandigarth di Le Corbusier incontra la Chicago di Mies.
Nell’edificio per esposizione Mobili Bergamo Ciagà, Gambirasio e Zenoni disegnano una infrastruttura di cemento armato che concilia le opposte qualità della “presenza” della materia e della riprogrammabilità degli usi possibili. Pensata per accogliere il divenire, a prevalere sulla fissità della forma come assunto a priori è il processo che la informa: il disegno, scarno e duro, privo di concessioni al superfluo, si fa espressione ostinata di un’attitudine orientata alla semplicità, alla elementare esibizione della logica costruttiva. Piani ascendenti, palchi disposti secondo una progressione a spirale aperta e incompiuta, gallerie aeree, scale a chiocciola poste sulle testate, livelli intermedi all’aperto e spazi seminterrati appena visibili dalla strada sono modellati impiegando un unico materiale, il calcestruzzo a vista, solcato da raffinate rigature diagonali che ne esaltano gli effetti chiaroscurali e materici al variare delle condizioni di luce.
Nuovi alfabeti
È ancora Giandomenico Belotti a tendere il diametro della conversazione silenziosa tra i due manufatti del secondo dittico che qui indaghiamo. L’edificio per esposizioni di mobili Baleri, da lui progettato ad Albino (Bergamo) tra il 1970 e il 1971, ci invita a stabilire un possibile dialogo con gli uffici della società SIAD che Sergio Invernizzi progetterà e costruirà a Bergamo un decennio più tardi, tra il 1982 e il 1985. Uniti da un fertile sodalizio professionale, che li vede compagni di studi prima e co-autori di significativi edifici fino al 1966, Belotti e Invernizzi condividono una tensione alla concisione del lessico costruttivo, fondata sulla sperimentazione delle possibilità espressive del telaio a vista in calcestruzzo armato: esilità di struttura e tamponamenti e pasimonia nella disposizione dei segni danno luogo a un fitto insieme di corrispondenze che Belotti, rispetto a un Invernizzi caparbiamente lecorbusiano e moderno, contraddice fino a concepire inaspettate invenzioni. Belotti, allievo del celebre scultore Marino Marini, si forma nutrendosi del milieu di un artista affermato, da cui eredita il gusto per una tridimensionalità voluttuosa. Invernizzi è più intransigente: fedele al Le Corbusier di Marsiglia, delle Maison Jaoul, del convento de La Tourette e di Chandigarth, applica le proprie convinzioni umane e spirituali alla professione, facendosi inteprete di una committenza industriale legata alla propria cultura d’origine. L’“esigenza di verità” che Sergio Crotti attribuisce all’architettura di Giandomenico Belotti è un tratto comune alle opere sin qui osservate ed è lo stesso Belotti ad esplicitarlo: «la messa in evidenza dei componenti strutturali riflette, oltre allo sforzo di suscitare curiosità e interesse, soprattutto il tentativo di fornire una chiave elementare di lettura».
Ad Albino, lungo la frequentata strada statale che attraversa la media Valle Seriana, Belotti progetta un edificio per l’esposizione di mobili e oggetti di design industriale. Committente è Baleri, storica azienda attorno a cui si sono radunati negli anni numerosi progettisti di rilievo internazionale, che ad Albino ospita produzione, distribuzione e residenza. Nella fabbrica belottiana i componenti strutturali non sono mai inerti o inespressivi: i pilastri si animano di accenti narrativi nei plinti svasati a geometria piramidale e nei contrafforti che alla base intercettano le flessioni della struttura; sui fronti esposti al sole ampie palpebre in calcestruzzo a vista assolvono la funzione di fornire ombreggiamento alle aperture a vetri. La memoria torna a Carlo Scarpa quando ci invitava ad osservare meravigliati il peso e la leggerezza insieme delle ante oscuranti in lastre di pietra in una calle veneziana. Ancora ad Albino il dislivello tra il fronte rivolto verso la strada e il fronte posteriore è risolto da potenti sostruzioni in calcestruzzo che sospendono il fabbricato, elevandolo alla quota voluta. Domesticità e industria, eros e necessità convivono, si interrogano vicendevolmente, dando vita in chi visita questa architettura a un seducente movimento interiore.
Negli uffici SIAD (Società Italiana Acetilene e Derivati), uno tra i più noti capisaldi dell’industria bergamasca, Sergio Invernizzi organizza un articolato programma in cui gli spazi amministrativi e direzionali dell’azienda sono aggregati agli uffici di una sede bancaria in un unico volume che si allinea alle direttrici date dall’impianto industriale esistente e alla via San Bernardino che dal centro della città medioevale – la “Piazza della Legna” nel Borgo San Leonardo -, conduce a Sud. Nel farlo Invernizzi mette alla prova le possibilità del calcestruzzo armato, che gli consentono di proiettare nel vuoto una lama orizzontale a guisa di pensilina al piano terreno, di estrudere le volte nello spazio aereo della copertura – citazioni inconsapevoli di bombole in acciaio per il gas sezionate per rivelarne la natura nascosta e le leggi fisiche -, di dare forma a un corpo scala che è un capolavoro di orchestrazione di elementi plastici ora scavati ora aggettanti, di far risuonare come un organo la facciata, ritmata da una partitura di sottili lame verticali in cemento rinforzato con fibra di vetro. Qui parlare di brutalismo è ammissibile solo nei termini che questo saggio individua, ossia quelli di un agire garbato, che di ciò che è brutale conserva solo la radicale presenza di una materia grezza, il cemento, mostrata nella sua viva concretezza.
L’edificio polifunzionale Duse, progettato da Walter Barbero, Giuseppe Gabirasio e Giorgio Zenoni a Bergamo nel 1969 e l’edificio residenziale che Sergio Crotti ed Enrica Invernizzi progettano in Viale Vittorio Emanuele II a Bergamo (1974-76) sono i due landmark urbani che rappresentano il vertice dell’architettura bergamasca del secondo Novecento e concludono questo breve viaggio. Il primo è un audace edificio ad uso residenziale, commerciale e direzionale innestato sul settore meridionale di una piazza circolare dove sorgeva un teatro dedicato a Eleonora Duse; il secondo è un sontuoso edificio residenziale allineato al bordo occidentale di quella che nel XIX secolo era la Strada Ferdinandea, collegamento viario tra la città al piano e d’altura.
Delle architetture qui indagate il complesso polifunzionale Duse è l’unico a non avvalersi di una esibita presenza del cemento armato. Benché esso costituisca l’ossatura – e la sostanza, non solo costruttiva –, di questo ardito esperimento urbano, a prevalere è un involucro di pannelli metallici che rivestono quasi intergralmente i fronti, i piani inclinati, gli emicicli disassati, gli ateliers domestici e le lanterne abitate ospitate sulla sommità di questo irripetibile mondo artificiale. Siamo nel territorio dell’aeronautica, dei materiali compositi, delle scocche e delle fusoliere ma anche del sottosuolo e delle sue cavità piranesiane. Siamo nel territorio dell’utopia di Constant, quella di una Nuova Babilonia dove è possibile dormire, pranzare, lavorare, vedere film in una avveniristica sala cinematografica, partire e tornare dal parcheggio sopraelevato accessibile da una rampa vaticana. Brutale è la sfrontata presenza di questa costruzione, un collage di funzioni, segni, rapporti dimensionali. Ma ancora una volta il brutalismo viene a patti con la città e il suo garbo. Le curve sono gentili, danzano attorno al baricentro della piazza che imprime un movimento centrifugo ai corpi, lanciandoli oltre ogni certezza senza tuttavia oltraggiare il genius loci e l’animo della città.
È significativo che siano proprio i due edifici che concludono questa esplorazione, così simili a concrezioni geologiche o montagne artificiali, a pareti rocciose, con le loro vette, guglie, strapiombi, o ancora a canyon scavati da fiumi di pianura, ad aver acceso in chi scrive il rimando al genio del luogo, ad habitat familiari. L’architettura è una forma di impegno civile, di coinvolgimento nei destini di un luogo preciso e non di qualunque luogo. Solo conoscendo in profondità “quel luogo” e non “qualunque luogo” è possibile immaginare un suo diverso destino, un Altrove mai pensato in precedenza. Umanizzando ogni cosa – come Homo sapiens è solito fare –, potremmo allora intendere il significato di “brutale” con un vivere ostinato, sincero, autentico, fedele, come gli architetti che qui abbiamo conosciuto ci hanno insegnato a fare.