Dopo la formazione in architettura all’Università La Sapienza di Roma, città in cui ha conseguito l'abilitazione professionale, si è occupata per anni di allestimenti museali, per mostre e fiere presso studi di architettura e all’ICE - Istituto nazionale per il Commercio Estero. In seguito si è specializzata frequentando il "Corso di alta formazione e specializzazione in museografia" della Scuola Normale Superiore di Pisa. Dal 2016 coordina la sezione architettura di Artribune, piattaforma per la quale scrive da giugno 2012, occupandosi anche della scena culturale di Firenze, sua città d'adozione. I suoi articoli sono stati pubblicati su Abitare, Domus, Living, Klat, Icon Design, Grazia Casa e Sky Arte. Oltre all'architettura, ama i viaggi e ha una predilezione per l'Estremo e il Medio Oriente.
Come vivremo nel post-pandemia? In quale modo le urgenze emerse nel corso dell’emergenza sanitaria si rifletteranno sulla progettazione degli spazi abitativi privati e di quelli destinati alle esperienze condivise? Sarà possibile soddisfare la sempre più ricorrente richiesta di un rinnovato rapporto fra ambiente costruito e paesaggio? A partire da marzo 2020, parallelamente al primo lockdown, in Italia e nel resto del mondo i progettisti hanno iniziato a interrogarsi su tali quesiti. Talvolta sollecitato dalla stampa di settore oppure esito di spontanee manifestazioni di idee, questo “esercizio collettivo del pensiero” ha permesso di individuare alcune strategie e soluzioni da adottare per affrontare i bisogni derivanti dalla crisi globale. Lungi dal convergere verso una risposta unitaria, la comunità che opera nei settori dell’architettura, dell’ingegneria e del design ha prefigurato una pluralità di scenari, anche antitetici fra loro. Nel panorama italiano si è dibattuto attorno alla prospettiva di un possibile ripopolamento delle aree a ridotta densità di popolazione, puntando anche sulle potenzialità offerte dal lavoro a distanza. Una visione che è stata accompagnata dall’ipotesi di interventi di recupero e valorizzazione del patrimonio edilizio esistente, a lungo abbandonato o trascurato, di ripristino delle infrastrutture secondarie, nonché di messa in sicurezza del territorio. In parallelo va registrata l’attenzione riservata al concetto di prossimità, sintetizzato nella formula “15-minute city” coniata dal direttore scientifico della Sorbona di Parigi, Carlos Moreno. In base a questo modello di pianificazione urbana è nel raggio di un quarto d’ora, una distanza da coprire a piedi o in bicicletta, che i cittadini dovrebbero disporre di tutte le condizioni e dei servizi indispensabili alla loro esistenza: dalla dimora al lavoro, dall’accesso all’approvvigionamento alimentare fino all’offerta di termini di istruzione, cultura, cura del corpo e tempo libero. Limiti e vantaggi di questa formula continuano ad alimentare il confronto fra gli esperti del settore, coinvolgendo anche politici e amministratori. Alcune città stanno già guardando con interesse a tale visione; in altre si punta a verificarne l’applicabilità, per provare ad arginare criticità croniche legate alla mobilità e al trasporto pubblico.
Già prima che la pandemia si manifestasse nella sua drammaticità, rivelando una dirompente propensione a incidere in (quasi) tutti i settori produttivi e nelle più consolidate forme di scambio, incontro e socialità, alcune esperienze di progettazione proponevano modelli per rinnovare il nostro modo di vivere in città, introducendo un’inedita gamma di servizi o facendosi promotrici di nuove forme di alleanza con il verde pubblico. Intrapreso nel 2017, con l’obiettivo dell’ultimazione del primo blocco residenziale entro il 2022, il programma di rigenerazione urbana SeiMilano si qualifica come uno dei più rilevanti fra quelli attualmente in corso nel capoluogo lombardo. Non solo perché l’estensione dell’area al centro di questa complessa operazione di riqualificazione urbana e paesaggistica oltrepassa i 300.000mq.