Laureato presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, dove insegna progettazione architettonica dal 2008 al 2011. Dal 1999 è autore di progetti di architettura, fotografia e comunicazione visiva per aziende e istituzioni pubbliche e private, ricevendo premi a concorsi nazionali e internazionali. Nel 2002 fonda new landscapes (<a href="http://www.newlandscapes.org/">www.newlandscapes.org</a>), studio di progettazione all’interno del quale sono state condotti progetti e ricerche sul rapporto tra l’uomo e l’ambiente, sulla percezione e la valorizzazione dell’immagine e dell’identità del paesaggio contemporaneo e sulla promozione di nuove forme di conoscenza e partecipazione. Dal 2016 è direttore della rivista di architettura e paesaggio Ark. È autore di oltre 50 pubblicazioni, tra libri, saggi e articoli specialistici sull’architettura, il paesaggio e la fotografia.
Dalla materia allo spirito. Il Grande cretto di Burri a Gibellina
La vita del pittore Alberto Burri (1915-1995), il maggiore land artist che l’Italia abbia avuto, autore della monumentale opera di arte ambientale nota con il nome di Grande cretto (Gibellina Vecchia, valle del Belìce, Sicilia, 1984-1989), ha inizio in un polveroso campo di concentramento nel sud degli Stati Uniti, a Hereford, presso Amarillo, in Texas. Burri vi era stato internato nel 1943, dopo essere stato catturato dagli inglesi insieme ad altri militari del decimo battaglione Mussolini, allora combattenti in Tunisia. Il giovane medico Burri resterà prigioniero a Hereford fino al 1946, anno del suo rientro in Italia: tre anni vissuti in un luogo colpito da tempeste di polvere e trombe d’aria. La sua formazione di medico – che tanto ha condizionato le interpretazioni più semplicistiche della critica e del pubblico sui motivi del suo fare artistico -, di fatto non ha luogo e a permanere nella sua vita di pittore è una formazione scientifica in prevalenza teorica che del corpo umano, delle sue patologie e della sua anatomia riconosce leggi e strutture, teorie e alfabeti disciplinari. Si tratta di un sostrato concettuale più che di una prassi consumata sul campo, la cui forza risiede nell’essere pensiero prima che azione e applicazione. Ciò consentirà al giovane Burri di cercare applicazione ed espressione delle istanze che lo pervadono non nella medicina bensì nella ricerca artistica. Potremmo intravvedere in questo destino una volontà di cura delle patologie della psiche, delle sue inquietudini, delle sue agitazioni interiori e intangibili, che l’arte ha il privilegio di esplorare e di accendere, talvolta di curare.
Non va tuttavia trascurato, nella concezione dell’arte che prenderà il sopravvento nel giovane Burri, il luogo della sua prigionia: una sconfinata pianura nordamericana, i cui orizzonti ininterrotti e i cui cieli dai colori cangianti, ora cristallini e tersi ora infuocati nella loro astratta uniformità, contribuiranno a delineare la sua visione delle cose. Alberto Burri dà forma alle proprie convinzioni pittoriche nell’isolamento di un campo di prigionia perduto nel paesaggio, dove il tempo dell’inattività diventa per una mente luminosa “tempo dell’invenzione”, del disegno del proprio destino personale. Molte religioni, cosmologie e teologie hanno avuto origine in luoghi di privazione, in paesaggi desertici, asciutti, monotoni, contrassegnati da una ossessionante assenza del rumore della civiltà. Quel silenzio sarà il principio scatenante e la materia dell’intero fare artistico di Burri, fino al Grande cretto di Gibellina Vecchia, che di quel fare è la sintesi e l’episodio riassuntivo.
Al rientro di Burri in Italia, è l’architetto romano Amedeo Luccichenti (1907-1963) a scrutare il talento dell’artista. I fratelli Ugo e Amedeo Luccichenti, il primo ingegnere nato nel 1899, il secondo architetto nato nel 1907, pur non avendo mai lavorato insieme nel corso della loro lunga e prolifica carriera di progettisti, costruiscono architetture che padroneggiano con disinvoltura il cemento armato, un materiale dalle possibilità plastiche straordinarie, piegandolo in esili lame, sottili partiti murari, sbalzi e volumi sospesi nel vuoto, resi possibili dall’uso libero e sicuro delle tecniche costruttive consentite da questo straordinario materiale. Non è difficile riconoscere le assonanze tra sensibilità che allora potevano ancora dirsi complementari – l’architetto, l’artista –, aperte alla sfida alla gravità, alla sperimentazione di poetiche libere dalla figurazione, dalle citazioni più ovvie al vernacolo e alla tradizione.
I cretti – crepe, fenditure, spaccature –, non sono altro che questo. Disseccati, disidratati, alleggeriti dell’acqua che ne garantisce freschezza e plasticità, ritiratisi e resi inerti da un sole implacabile che asciuga e toglie elasticità e vigore, i cretti sono concrezioni. Come accade a molti fenomeni naturali, essi non hanno proporzioni misurabili, possono prodursi in una pozza d’argilla arsa dalla calura, rapprendersi sulla tela di un pittore, fino a coprire una intera pianura o collina, come a Gibellina Vecchia. I cretti stanno lì, impassibili, a ricordarci che la natura non ha scala. È l’umano, perduto nell’incommensurabile, ad attribuirgliela. Comprendiamo allora quanto possa essere profondo il legame tra l’architettura e l’arte. Se ne ha prova ogni volta che l’una e l’altra sono tese alla ricerca di rapporti interni all’opera, noncuranti rispetto al consenso dato dalla ripetizione di gesti tradizionali e di analogie con le forme del corpo più ovvie e riconoscibili. Nell’arte astratta si insinua tanto lo slancio verso una verità spirituale, assoluta e immobile, quanto il pericolo di un’arte elitaria, incapace di parlare al popolo, alle sue tragedie quotidiane, ai suoi melodrammi. Alberto Burri si muove su una linea di confine controversa, lui che fu un irriducibile sostenitore del regime fascista, schivo, circondato da un silenzio necessario al farsi delle proprie immagini, artista-individuo, autore di processi di disfacimento delle cose e allo stesso tempo conservatore, aggrappato ai confini del quadro, ai bordi dell’opera, così indispensabili a sottrarla all’oblio, a renderla riconoscibile nello sfacelo generale del mondo. I temi attorno a cui insiste l’esplorazione di Burri oscillano continuamente tra conservazione e divenire, tra eternità ed effimero. Lo si comprende leggendo il “Manifesto del movimento spaziale per la televisione” (1952) a cui aderì al fianco di Lucio Fontana. Lo stesso Fontana, nel Manifesto, dichiara: «è vero che l’arte è eterna, ma fu sempre legata alla materia, mentre noi vogliamo che essa ne sia svincolata, e che attraverso lo spazio, possa durare un millennio, anche nella trasmissione di un minuto».
Il riferimento alle onde radio diffuse nel vuoto dell’universo sembra contraddire la materia oleosa e argillosa di cui sono fatti i quadri di Burri, una materia qualunque, ordinaria, industriale, tutta rappresa nel “qui e ora” di un’azione circostanziata. Opposta alla gravità terrestre delle materie di Burri è l’indefinibile immaterialità di un’onda elettromagnetica, vagante nello spazio infinito, destinata a non essere registrata da alcuno strumento di ricezione per un tempo indefinibile, consegnandola così a un silenzio non dissimile da quello che seguì il boato, perduto nel cosmo, che nella notte tra il 14 e il 15 gennaio del 1968 distrusse Gibellina Vecchia. È questo evento drammatico a determinare l’intervento di Burri. La Gibellina distrutta, ridotta in macerie, suggerisce all’artista che le pietre cadute in rovina possono diventare la materia dell’opera, possono vivere nell’arte. Così il Grande Cretto, come un sudario, come un candido sepolcro, si adagia sui resti del villaggio siciliano, trasfigurandoli e sublimandoli attraverso la forza dell’espressione.
Con il Grande Cretto (costruito tra il 1985 e il 1989 e ultimato dopo una lunga interruzione tra il 2013 e il 2015) Burri desidera trascendere la materia e, in questo specifico luogo, il dolore della storia, come ogni artista che intenda varcare i confini dell’esperienza tangibile. Il desiderio sotteso al Grande Cretto è la sopravvivenza alla caducità, non nella materia ma nello spirito che riposa in essa e che da essa si espande. Non serve essere religiosi per capirlo: lo “spirito” è il pneuma descritto dagli antichi greci, un soffio, un alito di vento, un respiro.
Nel portare un silenzio assorto sulle rovine, le suppellettili, gli utensili e i ricordi di un paese distrutto da un sisma, il Grande Cretto trasforma il luogo in una superficie di ascolto, un campo di forze, il contraltare terrestre di un extramondo a cui rivolgere, ciascuno, le proprie domande. Se nel corso di una notte di plenilunio si visita il Grande cretto, rischiarato dalla flebile luce di un solo watt riflessa dalla Luna, tutta la potenza dell’opera si offre allo sguardo e il suo silenzio fa di essa un’“isola risonante” nella campagna siciliana. È una visione notturna così descritta a dare la misura della materia di cui il Grande cretto è fatto, una distesa ondulata di 314 x 273 metri, 86.000 metri quadrati di cemento. Ritiratasi la vampa del sole, completato il processo di essiccazione, divenuta inerte la massa di conglomerato, resta la distesa lunare, il campo di forze, la piattaforma di ascolto rivolta all’oscurità dello spazio.
Burri si adirava con chi considerava le sue opere precarie, escluse dalla possibilità di avere un posto nel tempio della durata. Si spingeva contro le tele, premeva sulle membrane di plastica per dimostrarne la tenacia. Qui si consuma il dramma romantico di un’arte in fondo borghese, destinata a un successo ampio quanto l’immaginario che andava delineandosi nell’uomo comune della società industriale, attraversato da un conflitto interiore tra il voler essere qualche cosa che fosse durevole e memorabile, tra il voler essere qualcuno e l’insignificanza di una vita qualunque, di un’esistenza senza un nome importante. Qui sta il ruolo di Burri, interprete popolare di un destino divenuto, con la società dei consumi, comune a molti, un destino a cui non si sottrae neppure il celebre Cretto.
Cosa lega questo luogo così straordinario all’architettura e al costruire? Cosa fa sì che esso possa diventare un riferimento per pensare paesaggi, memoriali e di vita, non appiattiti sulle logiche della sola utilità? È un materiale, in apparenza ordinario, comune, quale il cemento. Burri lo impiega in modo estensivo per farne un’opera d’arte ambientale di proporzioni geografiche e di risonanza internazionale. Italcementi fornisce la materia necessaria al compimento dell’opera, il cemento bianco “Aquila Bianca”. La coerenza è assoluta, il materiale è uno soltanto, l’involucro e la struttura, la forma e la funzione sono inscindibili. Il cemento, come il Grande cretto, come l’arte, è fatto per resistere. Oggi che il cemento è una materia composita, ad alto contenuto di innovazione, osservare il segno nel paesaggio del Belìce lasciato da Alberto Burri riporta la storia di questo materiale alle sue origini e alla sua forza tellurica primigenia, quella di una dura pietra artificiale, priva di una forma propria, libera dai vincoli della stereotomia (l’arte del saper tagliare le pietre) e perciò capace di assumere di volta in volta le forme e i compiti che l’ingegno, e la poetica di un artista, gli chiedono.
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