Da oltre 20 anni lavora nel marketing e nella comunicazione. Come giornalista, ha curato e cura gli Uffici Stampa di alcune importanti realtà nazionali come l’Unione Camere Penali Italiane e il Consiglio Nazionale Ingegneri. È tra le fondatrici del Green TG, prima web TV italiana dedicata ai temi ambientali.
L’impresa di tenere in equilibrio il Pianeta. Intervista a Matteo Caroli
Il concetto di sostenibilità è il processo di cambiamento nel quale l’attività dello sfruttamento delle risorse, l’orientamento dello sviluppo tecnologico e le modifiche istituzionali tentano una specie di alleanza per preservare il potenziale attuale e futuro al fine di far fronte ai bisogni e alle aspirazioni dell’uomo mantenendo livelli ottimali in termini ambientali, sociali ed economici. L’opera di coniugare una miriade di variabili per verificare che la Terra e i suoi abitanti reggano, schivando i pericoli, sempre in agguato, di una planetaria instabilità, è il risultato di un precario bilanciamento di fattori a cui si può scegliere di concorrere pazientemente e che sfugge a ogni definizione ideologica. «In questi tempi incerti e di difficile decifrazione, far fronte alle sfide del climate change, della tenuta sociale e misurare il nostro grado di resilienza davanti a queste e altre prove future comporterà la possibilità delle aziende di continuare a perseguire policy ecosostenibili. Nessuna posizione preconcetta o strumentale può permettersi di eludere l’obiettivo di tenere in equilibrio il mondo». A dirlo è Matteo Caroli, Ordinario di Gestione delle Imprese Internazionali alla Luiss Guido Carli. È stato Associate Dean prima per l’Education, poi per l’Internazionalizzazione e dal 2023 per la Sostenibilità e l’impatto alla Luiss Business School di Roma, dove è anche Responsabile dell’Area Ricerca applicata e osservatori. Sul piano scientifico e professionale si occupa principalmente di gestione sostenibile dell’impresa, pianificazione strategica ed ESG, processi di internazionalizzazione.

La green economy, ovvero l’economia orientata alla riduzione dell’impatto ambientale e allo sviluppo sostenibile, sta crescendo a un ritmo superiore rispetto ai mercati tradizionali. Secondo uno studio del London Stock Exchange Group (LSEG), dal titolo “Investing in the Green Economy”, la capitalizzazione di mercato della green economy ha registrato un tasso di crescita annuale composto (CAGR) del 13,8% negli ultimi dieci anni, superando l’8,3% dei mercati azionari globali. Si tratta di uno sviluppo che autorizza a sperare in una conversione green più rapida? Quali correlazioni esistono tra rispetto dell’ambiente e successo negli affari?
«La sfida fondamentale contenuta nel concetto di sostenibilità è basata sull’integrazione, volontaria da parte delle imprese, degli obiettivi economici, ossa di competitività e di creazione di valore, con finalità di natura ambientale e sociale. Da questo punto di vista, negli ultimi venti o venticinque anni si è assistito a un miglioramento consistente nella tendenza a non considerare, in maniera aprioristica, la questione ambientale. L’approccio contenuto in questa definizione è quello a cui si dedicano, di solito, già i governi fissando norme ad hoc. I casi sono molteplici. Gli esecutivi possono, ad esempio, limitare le emissioni di CO2 derivanti dalle attività produttive, oppure introdurre norme per un corretto smaltimento dei rifiuti. Tuttavia, oggi la sostenibilità non deriva da decisioni esterne ma da un atto di responsabilità delle aziende. Queste ultime devono riuscire a perseguire target di valore economico unendoli a finalità generali che le imprese vogliono contribuire a raggiungere sotto il profilo ambientale e sociale. Come questo può avvenire è questione da declinare in maniera diversa a seconda dei settori produttivi nei quali si opera e di molte altre variabili. Chiaramente non esistono formule valide per tutti, in assoluto.
Quanto alle possibili correlazioni positive tra la virtù sul fronte dell’innovazione green e i risultati di crescita economica conseguiti da un’impresa, esse non sono automatiche, vanno cercate. D’altra parte, tutto il cosiddetto sistema della green economy propone modelli di business, soluzioni tecnologiche e tipologie di prodotti che sono pensati per risolvere problematiche ambientali e incontrano una domanda sul mercato, ovvero intercettano qualcuno che, come si dice in termini di marketing, sia “disposto a pagare” per quella soluzione innovativa. L’integrazione tra questi aspetti decide il risultato finale. Non lo si può ritenere scontato. Facciamo un esempio concreto. Investire in strutture di generazione di energia elettrica da fonti rinnovabili oggi costituisce, di certo, un’opportunità di business perché la cosiddetta “energia pulita” ha priorità nell’offerta, nell’azione di smistamento che fa la rete di trasmissione. Inoltre, essa presenta un costo più competitivo. Questo genere di mercato era anche più vantaggioso in passato per l’opera di sussidiazione pubblica. Tuttavia, prima delle politiche che hanno previsto massicci incentivi per uno sviluppo del comparto, iniziati attorno al 2007, la clean energy non era un affare. I motivi erano numerosi. I costi maggiori, una tecnologia molto meno avanzata e un’efficienza inferiore degli impianti del tempo sono i più facilmente intuibili. Oggi, anche senza sussidi, il settore sembra godere di una buona redditività ma non esiste nessun automatismo tra innovazione green e successo. I fattori in gioco, come dimostra l’esempio appena menzionato, sono molti. L’approccio è sempre quello di partire da una questione ambientale cruciale e muoversi lungo la traiettoria della sua soluzione. La capacità di un’organizzazione produttiva di risolvere problemi è ravvisabile in diversi contesti. Pensiamo, solo per fare un’altra ipotesi, al settore agricolo e alle ricerche sulla biodiversità riguardanti l’individuazione di colture più sensibili alle punte di calore e richiedenti meno acqua per crescere. Se avrà successo, questa tecnologia sarà redditizia e al contempo contribuirà a ridurre gli impatti non solo di problematiche ambientali ma anche, per i suoi riflessi sull’alimentazione, sociali».

Nel comparto delle costruzioni e dei materiali costruttivi, sono ancora poche le iniziative in termini di riduzione delle emissioni e di decarbonizzazione. Heidelberg Materials, ad esempio, gruppo molto attivo su questo fronte, sta realizzando in Norvegia, a Brevik, il primo impianto su scala industriale per la cattura e il sequestro della CO2. Lo stesso progetto verrà replicato in Italia nella cementeria di Rezzato-Mazzano, in provincia di Brescia, che potrebbe dunque diventare nel nostro Paese il primo impianto a produrre localmente un cemento a bilancio di emissioni zero di anidride carbonica. Cosa ne pensa?
«Premetto che mi occupo di dinamiche industriali e gestione delle imprese, non sono un ingegnere e neppure un chimico. Tuttavia, dal mio punto di vista, lo studio di nuovi materiali è sicuramente uno degli ambiti di innovazione tecnologica maggiormente importanti e più promettenti anche per l’integrazione tra la necessità di produrre valore economico e parallelamente reagire con l’innovazione alle sfide ambientali e climatiche di questa epoca. Per quel che riguarda l’edilizia è essenziale anche il recupero dei materiali usati. Oltre all’incidenza dei processi economici sull’ambiente, occorre porre l’accento anche sull’importanza di risolvere le problematiche sociali per riportare questo nostro Pianeta in equilibrio. Infatti, sia per il comparto edile che per altri ambiti di attività, penso, ad esempio, a quello dell’auto, c’è sempre una domanda da porsi, proveniente dal lato del consumatore: quanto l’attività innovatrice grava e graverà sui costi dell’utilizzatore finale? In assenza della giusta considerazione di tale aspetto si rischia di fare i conti senza l’oste».

Restando sul fronte dell’edilizia, la crisi demografica e l’allungamento della vita media stanno creando un vero e proprio problema di sostenibilità abitativa. Anche se recenti ricerche parlano di innovazioni in silver housing. Può parlarcene?
«La dinamica demografica italiana vede il 25% della popolazione composta da over 65. La percentuale è destinata ad aumentare, in dieci o quindici anni. Arriverà presumibilmente al 32-33%. Abbiamo 14,8 milioni di persone ultrasessantacinquenni e circa 8 milioni di over 80. Studiando i rapidi mutamenti in corso nelle nostre complesse società, si comprende facilmente come queste persone abbiano dei legami comunitari e familiari sempre più fragili, specialmente nelle grandi città. Una percentuale altissima di donne e uomini della terza e quarta età vive e vivrà da sola. In questo contesto, per gli anziani, continuare a passare l’esistenza nell’abitazione tradizionale è largamente problematico. La casa risulta sempre troppo grande, presenta microbarriere elettroniche, ha costi eccessivi, anche se solitamente i tentativi di adattamento dell’anziano si protraggono fino a quando non è più possibile, per ovvie ragioni. Il silver housing è un modello abitativo fondato sull’indipendenza di una persona all’interno di un appartamento costruito e gestito sulle reali necessità delle età più avanzate e sull’opportunità di beneficiare di una serie di servizi ad ampio spettro nel sito. Tra questi ultimi si annoverano numerose tipologie di assistenza: da attività di facilitazione (qualcuno che vada a fare la spesa, la reperibilità facile di farmaci o altre urgenze), a iniziative costanti di monitoraggio (legate alle condizioni di salute), sino a vere e proprie risposte ai bisogni sociali. L’ampiezza di queste specifiche realizzazioni in situ impone buildings non costituiti da singoli appartamenti ma messi a punto alla stregua di veri e propri complessi residenziali, su misura, adattabili alle istanze di chi è più avanti negli anni. Questo particolare paradigma abitativo è diffuso prevalentemente nel mondo anglosassone, negli Usa e in Nuova Zelanda. Nel regno Unito, l’8% degli over 65 vive in strutture di questo genere, con una domanda potenziale in rapida e costante ascesa. Sono dati che abbozzano la fotografia di un solido connubio tra una grande opportunità di business, carica, al contempo, di considerevoli risvolti sociali. Non mancano le versioni europee di questo fenomeno, sviluppato anche in Francia, Svizzera e nei paesi dell’Europa Settentrionale. L’accezione intergenerazionale del silver housing conosce un certo sviluppo in Olanda e individua una sorta di sistema abitativo intergenerazionale che sventa i possibili pericoli di ghettizzazione della terza età. Funziona così: nello stesso building convivono generazioni distinte: le une beneficiano delle altre, i nonni hanno “funzioni di nonno”, i giovani supportano quelli di età avanzata».

Un’altra componente della sostenibilità sociale delle nostre economie è, senza dubbio, l’inclusione. Un’economia inclusiva, che valorizzi le diversità e garantisca non solo pari opportunità e diritti per tutti, ma equità nelle organizzazioni e nella società, è davvero possibile? Se sì, può spiegarci perché?
«Il tema dell’inclusione va depurato da questioni di ordine ideologico. Ci sono state alcune spinte in avanti, soprattutto negli Stati Uniti, che hanno ingenerato l’illusione di poter adeguare illimitatamente le società umane a ogni minima volontà dei singoli. Nelle organizzazioni complesse questo non è possibile e approcciare ideologicamente la questione può suscitare reazioni opposte come hanno dimostrato le ultime vicende della storia e della cronaca d’Oltreoceano. Sul piano dell’etica, salvaguardata giustamente dalle norme, occorre dare opportunità a tutti specialmente a chi è stato sfortunato per diverse ragioni. Dal punto di vista della sostenibilità occorre integrare le competenze delle persone svantaggiate, caso per caso, con condizioni di privilegio iniziale volte a ridurre, quanto più possibile, lo svantaggio ma con l’idea che l’inclusione non sia una semplice indicazione di principio sganciata dalla vita economica. Essa è, al contrario, la costruzione di un percorso attraverso cui le persone danno e sono in grado di dare un contributo all’organizzazione di cui fanno parte, ottenendo, ovviamente, il giusto ritorno».
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