Giornalista professionista freelance, è laureata in Filosofia Teoretica all’Università Statale di Milano. Dopo aver esordito con collaborazioni per il Sole24Ore (Casa24) e il mensile Elle, attualmente scrive on&off line per testate nazionali ed estere centrando la sua indagine su design e architettura con particolare attenzione alla sostenibilità, Nuovo Umanesimo ed economia circolare. Pur viaggiando molto mantiene casa e cuore a Milano, la capitale del design che ha eletto a propria patria dopo aver vissuto a Londra per qualche tempo.
La ricerca materica come lessico, il cemento come un gioiello urbano. I segreti dell’ascesa di Studio Ossidiana
Studio Ossidiana è una giovane realtà in forte ascesa nel panorama dell’architettura internazionale, formato da un duo di progettisti che ha attirato in pochi anni l’interesse di molti operatori e nomi noti del settore guadagnandosi premi e riconoscimenti prima all’estero e oggi anche in Italia. Fondato a Rotterdam nel 2015, Studio Ossidiana è diretto da Alessandra Covini e Giovanni Bellotti, due architetti che qui hanno perfezionato gli studi e poi deciso di iniziare il loro percorso lavorativo, lo studio lavora all’intersezione tra Architettura, Paesaggio e Design, bilanciando ricerca e costruzione ed esplorando, come si legge nella loro presentazione, approcci innovativi attraverso edifici, materiali, oggetti e installazioni.
L’esordio nel mondo dell’architettura è di quelli fragorosi. Nel 2018 vincono il Dutch Prix de Rome, il più antico e prestigioso premio istituito in Olanda per gli architetti under 35 e assegnato ogni quattro anni. Grazie alla notorietà acquisita iniziano a essere chiamati da committenti internazionali privati e pubblici per collaborare ad alcune delle mostre di architettura più note al mondo quali la Biennale di Venezia, per ben due volte nel 2021 e 2023, la Biennale di Design di Istanbul, quella di Chicago, Rotterdam e Shenzhen. I loro lavori sono visibili in Olanda, Svezia, Turchia e America così come in Italia, dove al momento sono alla Biennale di Venezia con La casa Tappeto. Si tratta di un progetto ideato per il quartiere di Librino a Catania, immaginato come un padiglione mobile e temporaneo per momenti di pedagogia che è esposto all’interno del Padiglione Italia curato dallo studio Fosbury Architecture con il titolo Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri.
A luglio lo Studio Ossidiana ha aggiunto al suo già ricco palmares il Premio italiano dell’Architettura, vinto nella categoria under 35 e promosso congiuntamente dalla Triennale di Milano e dal Museo Maxxi di Roma dal 2019 per valorizzare l’architettura italiana.
Partiamo dall’inizio e chiediamo ad Alessandra Covini, socia cofondatrice con Giovanni Bellotti dello studio nonché vincitrice del Prix de Rome Architecture 2018, come nasce Studio Ossidiana.

«Giovanni e io ci siamo conosciuti una decina di anni fa all’University of Technology di Delft dopo i rispettivi studi universitari in architettura, io al Politecnico di Milano e a Lisbona e lui allo IUAV di Venezia. Nei Paesi Bassi abbiamo iniziato a mettere a confronto le passioni comuni e le rispettive visioni sull’architettura, ragionando su una serie di temi che ci portavano in lunghe, infinite conversazioni, e continuando a stupirci a vicenda. Certamente questo rapporto dialettico è stato la precondizione essenziale che ha creato anni dopo la possibilità di iniziare uno studio insieme, quando Giovanni era a Boston come ricercatore all’MIT, con una tesi in urbanistica sulla relazione tra umani e uccelli, e io a Rotterdam, dove avevo iniziato alcune collaborazioni con i terrazzasti nei Paesi Bassi e dopo aver vinto un bando di “talent development” post laurea. Durante conversazioni, spesso notturne, quando Giovanni era a Boston, sono nate le idee per alcuni dei primi progetti dello studio. Penso a Horismos, vincitore del concorso per un’opera d’arte nella scuola elementare di Vleuten in Olanda, vicino ad Utrecht, che abbiamo trasformato nell’opportunità di progettare un playground per la scuola e ad Amsterdam Allegories il progetto che ha vinto il Prix de Rome NL, il premio più antico nei Paesi Bassi per artisti e architetti, un concorso di idee finalizzato a immaginare possibili scenari tra arte e architettura. Il progetto, in particolare, ipotizzava per Sixhaven, a nord di Amsterdam, una serie di spazi pubblici sperimentali, una collezione di isole galleggianti, da raggiungere in barca. Il Prix de Rome è stato un riconoscimento fondamentale per noi anche perché è accompagnato da un premio in denaro necessario per continuare lo studio».

Kyoungtae Kim
Perché avete scelto questo nome per il vostro studio di architettura?
«Il nome, Studio Ossidiana, prende ispirazione dalla pietra lavica nera che si forma dalla veloce solidificazione della lava, trasformandosi in un vetro nero riflettente. L’ossidiana è anche uno dei primi manufatti dell’umanità, un oggetto con il carattere di artefatto, di strumento, quindi dotato di una forte valenza narrativa e allo stesso tempo, rappresenta una trasformazione materica, una pietrificazione. In questo senso unisce due aspetti ricorrenti nei nostri progetti, una attenzione alla narrativa e la trasformazione dei materiali, che per noi sono un modo per raccontare storie, per tradurre narrative del territorio in oggetti e spazi. Tramite i materiali cerchiamo di elaborare un nuovo vocabolario per lo spazio pubblico, in particolare tramite la tecnica del “terrazzo”».
Che idea vi siete fatti del cemento, alla luce dei vostri studi e sperimentazioni su questo materiale?
«L’approfondimento delle possibilità materiche del cemento ha portato alla realizzazione di uno dei primi progetti di Studio Ossidiana, Petrified Carpets nel 2016. Una istallazione che, unendo una ricerca quasi archeologica sul tappeto persiano e la sua relazione con il giardino e la successiva pietrificazione del tappeto in una serie di sculture in cemento colorato e levigato, ha dato vita a una collezione di oggetti architettonici realizzati in cemento e ispirati ai giardini ideali dei tappeti persiani. Questa ricerca è continuata in progetti come Horismos, un playground-labirinto formato da una sequenza di muri-onde di cemento colorato, ispirate alle siepi, ai muri dei giardini e al paesaggio fluido del fiume Reno, un tempo linea di confine del Limes romano. In questi progetti, il cemento è stato combinato con pigmenti, pietre e sabbia in rapporti diversi. Sperimentando vari metodi di lavorazione del calcestruzzo volevamo portare alla luce il carattere vivace e luminoso di questo materiale che nel mondo delle costruzioni sembra invece si sia andato progressivamente a dimenticare.
Lavorando con il cemento, inoltre, significa lavorare con tecniche e materiali differenti, dalla creazione delle casseformi, alla definizione della miscela, alla scelta dei pigmenti, alla finitura, passando per una serie di metamorfosi: la trasformazione di materiale fluido in una pietra artificiale. Nei nostri progetti abbiamo reinterpretato queste tecniche e lavorato sulle loro infinite variazioni, testando “ingredienti” non convenzionali e finiture differenti.
Oltre alle diverse variazioni con granulati di marmo, abbiamo sviluppato un terrazzo “terricolo” seminato con zolle di terra per un progetto di una “rovina” contemporanea a Ressen (NL). Per un museo in Flevoland, una regione olandese che era mare fino agli anni Trenta e trasformata in terreno agricolo nel corso del Novecento, abbiamo realizzato un terrazzo che raccontasse la storia della regione, che abbiamo chiamato “surf and turf”, utilizzando materiali “marini”, come cozze, ostriche, cannolicchi e vongole, e materiali agricoli come argilla espansa, sabbia e carbone».

Kyoungtae Kim
Questa estate avete vinto il Premio Italiano di Architettura 2023 under 35 per il progetto Art Pavillion M. (Almere, Paesi Bassi, 2022) poiché, come recita la motivazione «coniuga in un unico gesto sintetico le principali caratteristiche del lavoro dello studio, avviato con grande chiarezza seppur da pochi anni, tra ricerca formale e indagine sensibile sui temi ambientali e di relazione interspecie dell’architettura e del paesaggio». Che cosa vuol dire per voi Sostenibilità?
«Art Pavilion M. è anche un progetto di relazioni e di mediazione tra umani e altre specie. Se progetti come The Bird Palace, un giardino galleggiante per uccelli che posizione al centro non gli umani ma i volatili, e Amsterdam Allegories, che proponeva un nuovo possibile tipo di spazio pubblico definito dall’incontro umano con animali, piante e minerali, contenevano già in nuce alcuni aspetti di questo nostro modo di intendere e declinare una idea di sostenibilità, Art Pavilion M, il museo di Land Art e Multimedia progettato per le acque di Weerwater ad Almere, è un progetto in cui abbiamo cercato di declinare a scala architettonica una serie di relazioni tra scale e nature diverse.
Abbiamo immaginato il padiglione come una sequenza di cornici sull’acqua, un porto-passerella circolare che circonda una piazza d’acqua dove è possibile esporre arte, fare performance e osservare uccelli e piante ma anche nuotare o pescare. Uno spazio pubblico sull’acqua che apre verso l’“osservatorio”, il museo-padiglione, una struttura in legno e policarbonato, le cui finestre sono orientate sull’asse dei solstizi d’estate e d’inverno, mentre il tetto è ricoperto di conchiglie che filtrano l’acqua piovana e offrono un buffet agli uccelli della zona.
Nel bando ci si chiedeva di realizzare una passerella-terrazza, e noi abbiamo deciso di trasformarla non solo in un elemento di collegamento, ma in un gesto civico, in uno spazio che racchiude una piazza d’acqua dove poter fare una serie di performance, nuotare, pescare e installare opere d’arte. Abbiamo quindi spostato metri quadri dall’interno del padiglione all’esterno, per creare una piazza condivisa e sociale e permettere relazioni, magari anche con altre specie.
Seguendo il nostro interesse per i materiali e la loro capacità di raccontare o suggerire storie del contesto, abbiamo studiato la storia della regione, la Flevoland. Una regione che cento anni fa era lo ZuiderZee, il mare interno dei Paesi Bassi, che è stato poi dragato diventando terreno agricolo, uno tra gli interventi di bonifica più grandi del mondo. Per il progetto abbiamo sviluppato il terrazzo “Surf e Turf”, come la pietanza (traducibile forse come Mari e Monti in italiano), utilizzando come aggregati conchiglie e materiali agricoli, rendendo questi elementi testimoni fisici del passato e del presente della regione.
Con questo progetto volevamo unire diverse scale di intervento. Dalla conchiglia, che racconta la storia da cui è nata Flevoland, un territorio che è stato completamente rimodellato dagli esseri umani, arrivando alla scala planetaria delle finestre orientate a dialogare con i solstizi collegandoci a sistema planetario».

Riccardo de Vecchi
Qual è il vostro rapporto con l’Italia e quali differenze notate tra l’approccio all’architettura qui rispetto all’Olanda?
«Per i primi anni abbiamo avuto progetti prevalentemente nei Paesi Bassi o progetti commissionati da clienti internazionali in Italia. Penso alla Biennale di Venezia del 2021, invitati dal curatore Hashim Sarkis, o alla Triennale di Milano del 2022, commissionati da Het Nieuwe Instituut a progettare il padiglione dei Paesi Bassi, o al progetto per l’allestimento a Villa Necchi Campiglio per l’evento del New York Times Style Magazine durante la Milan Design Week 2019.
La decisione di studiare nei Paesi Bassi l’abbiamo maturata entrambi dopo averli visitati durante il nostro primo anno di architettura (Giovanni allo Iuav, io al Politecnico di Milano) ed esserci resi conto che architettura e design sono tra le priorità nazionali, intuendo da subito come sia un Paese che guarda molto al futuro e soprattutto che investe tanto sull’architettura contemporanea e sul design. L’Olanda è un paese non gerarchico, è molto aperto anche nei confronti di progettisti giovani e stranieri, e crede nei progetti sperimentali. Per noi in questo contesto è stato possibile ricevere commissioni per progetti di arte pubblica e spazi pubblici non convenzionali, come isole galleggianti per gli uccelli (The Bird Palace), come il playground Horismos, come la Firedune, un paesaggio di dune abitato da una serie di oggetti-scultura per cucinare e fare fuochi e falò all’aperto.
Negli ultimi anni, anche grazie a inviti di istituzioni o associazioni italiane abbiamo partecipato a eventi e mostre anche in Italia, come Wandering Fields da Assab One, un tappeto di suoli-chimera tra i Paesi Bassi e l’Italia, o Seedbed, un giardino-cornice in Alcantara che racchiude un semenzaio, nel contesto della mostra Biogrounds curata da Domitilla Dardi nell’isola della Certosa a Venezia».

Progetti presenti e per il futuro?
«Adesso stiamo lavorando su tanti progetti diversi, alcuni sono opere di public art in Olanda altri sono in via di definizione, ma ve ne è uno in particolare a cui teniamo molto. Abbiamo vinto un bando del PNRR per restaurare le stalle della cascina cremonese della famiglia di Giovanni. È un progetto importante perché è un luogo deve vorremo studiare e sperimentare sull’ambiente in un contesto, la Pianura Padana, caratterizzato da agricoltura intensiva e dove le problematiche sul tema sono tangibili. Siamo interessati in particolare alle relazioni tra le due pianure che abitiamo, quella Padana dove siamo cresciuti e i Paesi Bassi dove siamo adesso, esplorando le sinergie tra questi paesaggi. L’obiettivo della ristrutturazione è creare un archivio e degli spazi per eventi e mostre. Abbiamo già realizzato un primo workshop con gli studenti del Master di Architettura degli interni della Willem de Kooning di Rotterdam la scorsa estate, realizzando una piattaforma per uomini, uccelli e mucche con materiali edibili. Immaginiamo che la Cascina possa diventare un terreno di sperimentazione a lungo termine, dove produrre, mantenere e testare materiali e prototipi. Un luogo ponte che apra allo scambio tra l’Italia e i Paesi Bassi, diventando uno spazio di conoscenza, comunicazione e scambio».

Riccardo de Vecchi
Quali consigli ti senti di dare ai giovani che sognano di fare questa professioni?
«Penso che una delle cose più importanti per un giovane architetto sia capire chi siano i propri maestri, da chi si vuole imparare, studiare i propri “eroi” e cercare di fare esperienza in studi di architettura o design che siano relazionati ai propri interessi e alla propria visione. Per noi è stato importante scegliere i professori o professionisti con cui studiare e da cui imparare: Giovanni ha seguito i corsi di Paola Viganò allo IUAV, Mvrdv a Delft, Adele Santos all’MIT; mentre io ho lavorato da RCR ad Olot, e mi sono laureata con una tesi seguita dall’architetto Michiel Riedijk. In questi contesti ci siamo resi conto anche dell’importanza di sviluppare un proprio linguaggio e un alfabeto riconoscibile per comunicare al mondo temi e concetti rilevanti per noi e, e ci auguriamo, per la disciplina».
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