Laureato in geologia e con due grandi passioni: la bicicletta e la scrittura. Autore del libro "Tale padre, tale figlio... Lo spero! L'Islanda in bicicletta". Nel tempo libero collabora con riviste, come "VAL" e "Alvento", per la pubblicazione di articoli o di interviste per promuovere il territorio bergamasco e far conoscere personaggi di riferimento dei mondi che più lo affascinano.
Innovazione, sostenibilità e ribellione creativa. Claudia Mainardi e Alessandro Bonizzoni di Fosbury Architecture
Curatore del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2023, il collettivo Fosbury Architecture si distingue per la sua audacia nel ridefinire i confini dell’architettura convenzionale. Ispirati dal nome di un campione olimpionico famoso per aver rivoluzionato il suo sport, i membri di Fosbury Architecture sono coinvolti in una ricerca incessante.
Il collettivo, composto da Claudia Mainardi, Alessandro Bonizzoni, Giacomo Ardesio, Nicola Campri e Veronica Caprino, segue un percorso multidirezionale sin dalla sua fondazione, risalente a quasi dieci anni fa. I membri di Fosbury Architecture sono cresciuti in un’era di incertezza economica e ambientale, una realtà che ha plasmato la loro visione. Con un approccio che va oltre il mero processo progettuale, hanno creato uno spazio mentale in cui sfidano le convenzioni e promuovono l’idea che l’architettura possa essere tanto leggera e transitoria quanto solida e tangibile.
Oggi abbiamo il piacere di intervistare Claudia Mainardi e Alessandro Bonizzoni, due dei cinque membri del collettivo, che ha sede a Milano. Per loro, «l’architettura è una “pratica di ricerca” che va oltre la creazione di semplici manufatti».
Partiamo dal nome Fosbury, che fa riferimento a Richard Douglas Fosbury.
«Il nome Fosbury è proprio un omaggio al campione olimpionico del salto in alto. All’età di soli 21 anni, alla sua unica partecipazione ai giochi olimpici, nonostante i pronostici contrari ha vinto la medaglia d’oro a Città del Messico, cambiando radicalmente la disciplina olimpionica. È una storia affascinante: Fosbury, che non era di certo l’atleta migliore, ha studiato l’efficienza del salto, e si è fidato delle sue intuizioni al punto di volgere le spalle all’ostacolo. Fosbury ha apparentemente voltato le spalle al suo sport, cambiando drasticamente direzione, eppure fu la scelta necessaria per farlo evolvere. Nessun altro ha più utilizzato il salto ventrale, il “Fosbury flop” è diventata la normalità. In Fosbury abbiamo riconosciuto un eroe pur non essendolo. Qualcuno in grado di cambiare le regole dall’interno senza temere di mettere in discussione la disciplina stessa».
Cosa vi ha spinto a creare il collettivo?
«Siamo tutti coetanei, nati tra l’87 e l’89. Ci siamo conosciuti al Politecnico di Milano e il collettivo è nato da una necessità di più persone di reagire a un contesto ostile: erano gli anni della crisi economica, e il mondo del lavoro non sembrava proprio accettarci. In questo senso, Fosbury Architecture è diventato prima di tutto uno spazio di libertà, un luogo mentale in cui sentirsi liberi di condividere preoccupazioni, idee, valori e interessi. Negli anni siamo passati da 8 a 5 membri. Ognuno di noi, aldilà di Fosbury, ha perseguito carriere personali anche all’estero, facendo sì che la maggior parte della produzione del collettivo negli scorsi anni sia avvenuta in collegamento virtuale tra l’Italia, l’Olanda e la Germania. La nostra pratica è cambiata nel tempo sia in termini di formati che di temi trattati. Abbiamo progressivamente abbandonato i concorsi – dato che, anche quando vincevamo, non portavano da nessuna parte – per dedicarci principalmente alla realizzazione di installazioni, allestimenti, scenografie, così come labirinti e pubblicazioni. Dal gennaio 2020, siamo tornati tutti a Milano pronti a lavorare in modo più ravvicinato, ma poco dopo è scoppiata la pandemia infrangendo ogni desiderio. Desiderio soddisfatto un anno dopo con la nomina a curatori del Padiglione Italia alla Biennale di Architettura di Venezia. Non ce lo aspettavamo, essendo una selezione a invito, ed è stata una grande opportunità. Certamente è stata un’esperienza impegnativa, ma ne siamo davvero orgogliosi».
Vi definite un collettivo, ma cosa vi differenzia in termini di idee, concetti e metodi rispetto a uno studio di architettura tradizionale?
«La nascita di Fosbury Architecture è stata influenzata dal contesto particolare in cui siamo emersi. Non volevamo essere uno studio tradizionale, non perché ci sentissimo emarginati o diversi, ma perché desideravamo creare una piattaforma più orizzontale possibile. Volevamo sperimentare con libertà, adottando un approccio organico al nostro lavoro. Alle origini, l’ispirazione è stata quella dei collettivi degli anni ‘60 e ‘70, pur senza incorporare l’ideologia di quei tempi. Una condizione che negli anni è stata persa, tanto è vero che ai nostri inizi erano davvero pochi i collettivi d’architettura. Eppure, è un approccio che negli anni ha preso piede fino ad arrivare ad oggi in cui ne nascono incessantemente. All’interno del collettivo, pur essendo tutti architetti, ci conosciamo a tal punto da sapere quali siano i punti di forza e di debolezza di ciascuno, consentendoci di assegnare incarichi basati su predisposizione, interessi oltre ovviamente alla disponibilità di tempo. L’organizzazione del lavoro solitamente non è troppo rigida, tranne in casi particolari come la Biennale, dove l’estensione del progetto e l’ampio coinvolgimento di altre realtà ha richiesto una suddivisione dei compiti e delle responsabilità ben precisa».
Secondo Fosbury Architecture, l’architettura è una “pratica di ricerca” che va oltre la creazione di semplici manufatti. Qual è l’obiettivo principale della vostra architettura? Come riconoscete di aver raggiunto ciò che cercate?
«Vogliamo chiarire che non siamo contrari alla creazione di manufatti. Tuttavia, vogliamo sfidare l’idea radicata da secoli che l’architettura debba sempre proporre soluzioni definitive. Questa visione eroica dell’architettura del XX secolo ha spesso portato a risultati problematici, considerando i pesanti impatti ambientali del settore edilizio. Noi crediamo che l’architettura possa anche consistere nel non fare nulla, nel salvaguardare o riutilizzare. Un buon progetto può non tradursi in un manufatto fisico, ma piuttosto in una rete di persone che generano risultati leggeri con impatti significativi e duraturi nel tempo. Questa filosofia è stata esemplificata nella nostra partecipazione alla Biennale di Architettura, dove abbiamo messo in mostra un’impronta minima in termini di manufatti fisici, ma un impatto considerevole sul territorio».
Ecco, a proposito, come curatori del Padiglione Italia alla Biennale di Venezia 2023, avete proposto un progetto estremamente ambizioso e ampio, nel tempo e nello spazio, con ben nove interventi site-specific in Italia, precedenti all’esposizione «SPAZIALE: Ognuno appartiene a tutti gli altri», presso l’Arsenale di Venezia.
«Si, i nove interventi fanno parte in realtà di una lista incompleta di luoghi e progetti. Abbiamo selezionato luoghi paradigmatici caratterizzati da fragilità o particolari dinamiche di trasformazione. All’interno di tali contesti, abbiamo fatto lavorare delle coppie composte da pratiche architettoniche e advisors, ovvero professionisti provenienti da vari settori, con il supporto di incubatori quali associazioni e musei.
Tra i vari progetti, quelli a Taranto (“Post Disaster Rooftops”) e Belmonte Calabro (“Tracce di BelMondo”), erano già da anni attivi, fungendo dunque da utili ispirazioni per la curatela generale del padiglione. Procedendo con altri esempi, i progetti cambiano molto tra loro, con uno spettro che va da realizzazioni più effimere a più tangibili. Per quanto riguarda gli ultimi, un esempio significativo è quello a Trieste (“Sot Glas”), dove la designer Giuditta Vendrame ha collaborato con la regista di origini albanesi Ana Shametaj. Qui si è affrontata l’ardua sfida di “rappresentare” la multiculturalità. Trieste, essendo una delle principali rotte balcaniche, è caratterizzata da stratificazioni culturali molto complesse. Data la delicatezza del tema, l’idea delle autrici è stata quella di guardare alla musica come a uno sconfinamento e a un paesaggio. La drammaturgia sonora reinterpreta i canti popolari transfrontalieri in chiave anti-filologica, spaziando da canti di migrazione e abbandono a “maccheronici”, in due o più lingue, storicamente mai trascritti e archiviati in quanto considerati pratiche che eludono la costruzione dell’identità nazionale. Drammaturgia realizzata in un luogo tanto suggestivo quanto sconosciuto ai più: un tunnel sotterraneo originariamente costruito durante la Seconda Guerra Mondiale, trasformatosi nel tempo in una sorta di grotta naturale a causa delle infiltrazioni».
E gli altri progetti?
«In altri progetti, come nel caso di Marghera, l’approccio è stato invece molto pragmatico. In collaborazione con il collettivo Parasite 2.0 ed Elia Fornari (vice presidente del brand di streetwear Brain Dead), abbiamo scoperto una realtà incredibile. Un parroco negli anni ’90, al fine di rafforzare la comunità di abitanti del quartiere, ha pensato di trasformare la facciata laterale della chiesa in una parete di arrampicata. La comunità negli anni è cresciuta, contando un gruppo di più di 100 persone di tutte le età. L’intervento in questo caso è stato semplice ma efficace, mettendosi al servizio della comunità, dunque lavorando alla riqualificazione della parete esistente. Inoltre, la struttura di bouldering attualmente esposta presso il Padiglione Italia è destinata ad essere installata in modo stabile e duraturo nei pressi della comunità».
Tra i nove site-specific, non possiamo non parlare di «Uccellaccio», che ha come protagonista un Ecomostro incompleto del 1973 nel comune di Ripa Teatina, e che rientra nel vostro progetto più ampio «Incompiuto».
«Sulle opere pubbliche incompiute italiane lavoriamo da più di 10 anni. È un progetto che seguiamo dalla fondazione di Fosbury Architecture e per il quale dobbiamo ringraziare Alterazioni Video, un collettivo di video-artist che è stato in grado di trasportare gli Ecomostri – un’invenzione di Striscia la Notizia – dalla cronaca a un piano artistico e immaginifico. Nel 2018 abbiamo pubblicato insieme “Incompiuto. La nascita di uno stile”, la prima ricognizione completa del fenomeno. Abbiamo scoperto circa 700 edifici incompleti e abbandonati diffusi in tutta Italia, una mappatura che non esclude nessuna regione e in crescita costante. La quantità e qualità di questi manufatti ci ha spinto a sostenere che “Incompiuto” è il più importante stile architettonico in Italia dal secondo dopoguerra ad oggi. Una provocazione per alimentare il dibattito intorno a un tema sostanzialmente negletto e quasi sempre archiviato come spreco e vergogna; nel tentativo di ribaltare il punto di vista da negativo a positivo, da occasione persa a opportunità. Dopotutto questi edifici sono a tutti gli effetti opere pubbliche e meritano una seconda possibilità: di diventare servizi anziché restare buchi neri di risorse, speranze e aspettative.
Era da molto tempo che cercavamo un caso studio sul quale intervenire e per il Padiglione Italia, insieme al collettivo di architetti ferrarese HPO e la scrittrice Claudia Durastanti, abbiamo identificato a Ripa Teatina una ex RSA perfetta per sviluppare il primo progetto in Italia di riattivazione di un’opera incompiuta. In una prospettiva di pacificazione e disvelamento, il progetto si propone come occasione per immaginare un nuovo processo di riattivazione partecipato, capace di addomesticare l’“ecomostro” che così tanto ha segnato la vita di quel territorio. Il progetto “Uccellaccio” permette ai visitatori la riscoperta dell’edificio, attraverso un percorso di 440 metri, lungo il quale l’edificio può essere osservato da una prospettiva diversa. Il 29 aprile 2023 il progetto è stato aperto al pubblico in collaborazione con il Comune con una visita guidata e il prossimo passo è quello di far diventare l’intervento – che si snoda in un paesaggio stupendo di uliveti e vigneti – un parco pubblico a tutti gli effetti».
Fosbury Architecture si è occupata di documentari, fanzine, mostre ed esposizioni, sempre con un focus sulla sostenibilità. Qual è il vostro approccio alla sostenibilità e come cercate di integrarla nei vostri lavori?
«La sostenibilità è un valore centrale nel nostro approccio all’architettura, radicato nelle circostanze in cui siamo nati e nel contesto di crisi economiche e ambientali. Non intendiamo la sostenibilità come un’aggiunta opzionale, ma come parte intrinseca del nostro processo creativo. Non seguiamo protocolli standard, ma affrontiamo ogni progetto con un approccio specifico e su misura. Ciò significa considerare attentamente i materiali, cercare soluzioni monomateriche quando possibile e dare nuova vita a materiali già esistenti. Siamo convinti che la sostenibilità non debba essere solo un obiettivo, ma un principio che guida tutto ciò che facciamo».
Vi siete concentrati su particolari materiali durante i vostri progetti?
«La scelta dei materiali varia da progetto a progetto; non ne abbiamo uno preferito, cerchiamo piuttosto di usarne pochi così da semplificare la disinstallazione e il riciclo, soprattutto nelle esposizioni temporanee. Ad esempio, il padiglione temporaneo “Rocco” realizzato per la Triennale di Milano è stato costruito interamente in polistirolo estruso (XPS): un materiale che, seppur chimico, ha ottime proprietà di riciclabilità, poiché può essere triturato e riutilizzato. Un altro materiale che ci è capitato di utilizzare è il forato a secco, senza l’uso di cemento, così da renderlo facilmente smontato e riadoperato. Abbiamo lavorato anche con pellicce o moquette provenienti da SpazioMeta: una realtà con base a Milano specializzata nel recupero di materiali provenienti da allestimenti e sfilate di moda. Materiali che, a seguito del loro utilizzo, vengono puliti e messi sul mercato a prezzi più che accessibili garantendo un ciclo che conferisce al materiale una nuova vita autenticamente sostenibile».
Viste le vostre giovani età e le idee forti che esprimete, quale consiglio dareste a un giovane che si avvicina al mondo dell’architettura?
«È una professione che può dar molto, ma richiede un’enorme motivazione, passione e forse troppi sacrifici. Incoraggiamo i giovani a fare più esperienze possibili, lavorando in diversi contesti e con persone diverse così da acquisire un solido set di competenze».
Quali sono i prossimi obiettivi o traguardi che Fosbury Architecture si pone?
«Attualmente, oltre a nuovi lavori, ci stiamo concentrando sul programma del Padiglione Italia, che culminerà con la chiusura della Biennale di Venezia alla fine di novembre. Tuttavia, l’augurio maggiore è che i progetti riescano ad avere un impatto duraturo, radicandosi nel territorio».
Essere pronti al cambiamento e, anzi, associarlo al concetto di crescita, è ciò che ha spinto i ragazzi del collettivo Fosbury a esplorare profondamente i principi dell’architettura antica e moderna, per poter metterli (e mettersi) in discussione. In discussione e pronti anche a voltare apparentemente le spalle al proprio mondo, non per evitare un problema, ma per cercarne una soluzione in un modo completamente diverso e inatteso, proprio come Richard Douglas Fosbury.