Laureato presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, dove insegna progettazione architettonica dal 2008 al 2011. Dal 1999 è autore di progetti di architettura, fotografia e comunicazione visiva per aziende e istituzioni pubbliche e private, ricevendo premi a concorsi nazionali e internazionali. Nel 2002 fonda new landscapes (<a href="http://www.newlandscapes.org/">www.newlandscapes.org</a>), studio di progettazione all’interno del quale sono state condotti progetti e ricerche sul rapporto tra l’uomo e l’ambiente, sulla percezione e la valorizzazione dell’immagine e dell’identità del paesaggio contemporaneo e sulla promozione di nuove forme di conoscenza e partecipazione. Dal 2016 è direttore della rivista di architettura e paesaggio Ark. È autore di oltre 50 pubblicazioni, tra libri, saggi e articoli specialistici sull’architettura, il paesaggio e la fotografia.
Il primato del colore bianco nel modernismo architettonico
La breve storia del colore bianco nel modernismo architettonico, che qui raccontiamo, ha inizio da uno dei suoi più significativi momenti di climax, ossia da uno di quei punti sull’asse del tempo a cui corrisponde il riconoscimento di uno Zeitgeist (lo spirito di un’epoca) consegnato alla narrazione storiografica. La storia dei New York Five, cinque architetti il cui lavoro viene presentato collettivamente per la prima volta al Museum of Modern Art di New York nel 1969, è l’esito di una convergenza tra concezioni dell’architettura solo in apparenza solidamente assimilabili tra loro. Gli autori dei progetti esposti a New York sono cinque professionisti americani ancora poco conosciuti alla critica internazionale e al pubblico, che la stampa chiamerà “I bianchi” (The Whites) per via delle loro facciate luminose, riconoscibili per il primato monocromo di questo colore.
John Hejduk (1929-2000), Peter Eisenman (1932), Richard Meier (1934), Michael Graves (1934-2015) e Charles Gwathmey (1938-2009) sono cinque architetti americani che si formano nell’ambito del Movimento Moderno, di cui indagano, a volte difendendoli con intransigenza, altre rovesciandoli, i principi, dal purismo alle ville dei 5 punti dell’Architettura del primo Le Corbusier, dal Bauhaus al Razionalismo italiano di Giuseppe Terragni. La distanza geografica dall’Europa, la relativa assenza di un peso della storia a cui rivolgersi con ossequiosa deferenza, la molteplicità di prospettive e possibiltà espressive propagandate dalla società americana, consentono loro di sviluppare personali e originali interpretazioni di un International Style che negli anni del secondo dopoguerra si andava imponendo altrove come un orizzonte ubiquitario.
Dei cinque, Graves abbandonerà presto le ricerche presentate al Moma per aderire a una concezione dell’architettura più ironica e sensibile all’ornamento. Richard Meier e Charles Gwathmey sono i più moderati e fedeli al discorso del primo modernismo europeo: la loro produzione è intellegibile, risponde alla logica asciutta dei dettati funzionali, alle necessità d’uso e rappresentative di una committenza che richiede residenze, musei e auditori, fruibili e accessibili. Come la Weinstein house di Meier, a Old Westbury (New York, 1969-1971) o la Haupt residence di Gwathmey-Siegel, ad Amagansett (New York, 1977-1978), echeggianti le ville Stein a Garches (1927-1928) e Savoye a Poissy (1928-1931) di Le Corbusier.
John Hejduk, con le Diamond-Houses (1963-1967), sviluppa, senza pervenire alla costruzione, teorie architettoniche in forma di rappresentazioni isometriche in cui gli elementi costruttivi sono ruotati e messi in tensione rispetto alla razionalità di griglie cartesiane. A prendere corpo, pur nella bidimensionalità del disegno, sono per Hejduk “argomenti”, “idee”, segni di un “vocabolario” visivo.
Peter Eisenmann studia a lungo Giuseppe Terragni (1904-1942), di cui intuisce il movimento nello spazio degli elementi architettonici che l’architetto comasco imprime alla materia: nella Casa del Fascio (1934) di Como, attraversata da un’energia interna, Terragni fa “implodere” le facciate verso il centro della costruzione, generando logge e sfondati; nella Casa Giuliani-Frigerio (1939-1940), agitata da una dinamica opposta, fa “esplodere” i prospetti verso la città, scomponendone l’unità in piani proiettati nello spazio.
Potremmo affermare che sia stata l’Italia di Terragni il luogo dove le sperimentazioni dei New York Five hanno avuto un’origine, ora indiretta, ora manifesta. Nessuno tra loro ne è immune, persino le composizioni più quiete e misurate di Gwathmey e Meier sono solcate da segni diagonali, da piani inclinati, da rotazioni di facciate che convivono con geometrie più assorte e silenziose, dando vita ad esperienze percettive nuove e coinvolgenti.
Sovvertendo gli assunti di una tradizione, fino ad oltraggiarla con il coraggio che può appartenere solo a un giovane autore, Terragni intuisce che la via da intraprendere per l’architettura del XX secolo sia quella nel segno della dinamica, del movimento, della libertà dai vincoli della gravità. Nelle architetture di Terragni risuonano le aritmie e le sonorità dissonanti della musica delle Avanguardie, le loro partiture polimorfe e inclusive, capaci di includere il discorso sofisticato e l’inessenziale, fino al quotidiano, con le sue manifestazioni disarmoniche e impreviste.
È questo un primo tema che porta le riflessioni qui presentate verso l’attualità, verso un presente che vive di discontinuità, di dinamici campi di forze. Coglierne i movimenti, anticiparli, conciliando le opposte dimensioni della stanzialità e della presenza con quelle più effimere del cambiamento fanno dell’architettura, di allora e di oggi, un formidabile orizzonte in cui è possibile trovare il senso del nostro tempo.
Si pensi all’Atheneum che Richard Meier progetta a New Harmony tra il 1975 e il 1979. La “nuova armonia”, che Meier traduce in un bianco, rilucente ensemble di volumi, rampe, scale e pareti, ora sinuose ora affilate come lame, è quella promossa dall’utopia sociale cooperativa di Robert Owen, il celebre riformatore inglese fondatore del villaggio industriale di New Lanark (1786), che proprio a New Harmony, nello stato americano dell’Indiana, dà vita a una contro-rivoluzione rurale destinata a concludersi nel volgere di tre anni dal suo avvio.
Sperimentazione, utopia, rinnovamento radicali, fallimento e rinascita sono attributi di una realtà in divenire continuo, a cui l’architettura di Meier rivolge un tributo nelle forme dissonanti di un edificio pubblico per l’accoglienza dei visitatori al sito della celebre utopia oweniana.
Cosa lega tra loro queste esperienze progettuali e queste avventure umane e sociali? Il colore bianco, a cui i riformatori del XVIII e XIX secolo attribuivano un’aura spirituale e ideali integrità morali e i “Whites” – così erano soprannominati, con un’entusiasta approvazione di Meier, i cinque architetti americani –, affidavano le proprie sperimentazioni architettoniche.
Il bianco, il vero tema che sta sullo sfondo di questo saggio, è una necessità, lo è nella misura in cui attenua il rumore di fondo di architetture cariche di tensioni, di moltiplicazioni delle possibilità di percorrezza e di interpretazione, spaziale e filosofica. Il suo silenzio, il suo candore, opposto alla collerica natura umana e alle sue agitazioni irrazionali – vi è un altro tema più attuale? – trova nelle opere di Terragni prima e dei New York Five poi un senso universale. L’architettura è ancora una realtà fisica capace di influire sugli stati d’animo, di registrare il trascorrere del tempo, l’arco disegnato dall’ombra sul pavimento di una stanza. Lo è tanto a Como, dove le cavità scavate da Giuseppe Terragni nella rilucente massa delle pareti bianche si animano di ombre metafisiche e misteriose, così come in Richard Meier a Darien, dove la fragile teca della Casa Smith (1965-1967), opera tra le più rappresentative della carriera di Meier, si palesa tra il fogliame dei boschi e le rocce del litorale come un’apparizione, rivelando il significato profondo contenuto nella parola imago.
A interessare gli autori di queste architetture è un bianco quale espressione di idealità e intangibilità rispetto alle passioni umane. Luogo dell’anima e del pensiero razionale, il bianco quale spazio fisico e dimensione mentale trova nella materia delle architetture qui descritte un contraltare mai immobile o inerte. Ed è da questo incontro tra l’immobilità di un colore associato all’“idea” e la mutevolezza di organismi spaziali carichi di tensione che è possibile trovare un equilibrio.
L’Italia, quella solare e mediterranea, ha ispirato il Movimento Moderno e i suoi accoliti, dalle Avanguardie alla contemporaneità, attratti dalla plasticità delle costruzioni, dal riverbero della luce sulle superfici a calce, di marmo e, oggi, di cemento, dall’anelito alla ricerca di espressione e alla libertà di movimento, nel segno di una continuità tra esperienze lontane nello spazio e nel tempo eppure profondamente vicine.
Questa matrice mediterranea, che ha informato l’opera di Giuseppe Terragni, trova una sua continuazione nel lavoro di un architetto italiano legato alla concezione dell’architettura fin qui esplorata: il pugliese Mauro Galantino (1953), autore di un progetto di una residenza con funzione ricettiva sulla costa meridionale del Gargano (1992), dove le alte scogliere di calcare bianco fanno da fondamento a un insieme di unità abitative, rigorosamente bianche, che anziché risolversi in un volume compatto e monolitico, si dissolvono in piani orizzontali e verticali, in diaframmi e linee direttrici che fanno pensare tanto a Terragni quanto a Meier.
Galantino interpreta il programma funzionale – dare alloggio a una famiglia numerosa e a spazi per la ricezione turistica – scomponendo l’insieme in unità autonome ma rigorosamente legate da tracciati ordinatori e pensiline che portano ombra agli interstizi tra un volume e l’altro, così da produrre un articolato sistema di ambienti interni ed esterni dalla geometria aperta. Il bisogno di stare e di stanzialità e il desiderio di far correre l’occhio verso i molteplici orizzonti fanno parte della medesima esperienza, suggerita da dispositivi architettonici che escludono ora una vista e ne accentuano un’altra. Ancora una volta, è il colore bianco a risolvere il campo di forze dispiegato da Galantino, quel bianco che rende così riconoscibili le monumentali falesie calcaree sulla cui estremità sorge il progetto.
Le architetture di Terragni, dei Whites, di Galantino si confrontavano con sistemi costruttivi e materiali ordinari e talvolta precari come il legno verniciato degli involucri o l’intonaco esposto agli elementi atmosferici, perché ad essere indagate erano le qualità più specificamente intellettuali e astratte dello spazio.
Nella contemporaneità una crescente importanza nella prassi progettuale è assunta, da un lato, da valori quali la durata – un requisito primario per una gestione dei costi di manutenzione nel tempo – e, dall’altro, dalla rivalutazione delle qualità materiche riferite all’esperienza corporea e percettiva dell’architettura. Tali assunti ci invitano ad indagare i momenti significativi che testimoniano una prosecuzione di questa ostinata ricerca nel segno di una classicità del Moderno. Momenti, e manufatti d’architettura, che si affidano ora alla plasticità e alla “presenza” del cemento bianco, alla sua luminosa espressività. La consistenza di “pietra artificiale” di questa materia, le sue possibiltà di lavorazione, in grado di evidenziare lucentezze e opacità, planarità perfette e scabre materialità, dice con eloquenza un ulteriore legame, quello con le rocce, gli strapiombi calcarei di un mare ancora esistente o remoto appartenente al passato della Terra.