Co-fondatrice, community manager e volto di Greencome, new media dedicato alla sostenibilità, si occupa di contenuti editoriali, campagne e progetti di engagement che raccontano storie, condividono soluzioni e diffondono notizie su clima e ambiente, con l’obiettivo di sensibilizzare e ispirare un cambiamento positivo. Laureata magistrale in Economia e Politiche dell’Ambiente, ha affiancato al percorso accademico un impegno attivo in ambito associativo, in particolare con Legambiente, dove ha ricoperto il ruolo di delegata nazionale, con l’intento di tradurre l’attivismo personale in azioni concrete per la tutela dell’ambiente.
Finanza Sostenibile: investire nel cambiamento. Intervista a Fabio Raghino di Ambienta
La finanza sostenibile è passata da nicchia specialistica a pilastro strategico della transizione ecologica. Oggi non riguarda più solo investimenti “etici”, ma la capacità stessa di orientare i capitali verso imprese e soluzioni che riducono l’impatto ambientale e generano valore duraturo.
Per capire come la finanza possa diventare un motore concreto della transizione ecologica, orientando capitali e imprese verso modelli più sostenibili, abbiamo fatto alcune domande a Fabio Ranghino, Partner e Head of Strategy & Sustainability di Ambienta, uno dei principali fondi europei di private equity interamente dedicati alla sostenibilità ambientale.

Cosa si intende oggi per finanza sostenibile?
«Negli ultimi anni la definizione di finanza sostenibile si è evoluta, fino a comprendere un’ampia varietà di strumenti finanziari che investono sia in società quotate che private, applicando criteri di selezione più o meno chiari e trasparenti.
In generale, possiamo distinguere due grandi famiglie. La prima riguarda gli investimenti in società i cui prodotti o servizi offrono soluzioni concrete a problemi ambientali o sociali (e.g. tecnologie per l’efficienza energetica o sistemi per la gestione delle acque). In questa famiglia rientrano solo quelle aziende il cui prodotto o servizio genera un impatto positivo diretto sull’ambiente o sulla società.
La seconda famiglia, invece, include strumenti che selezionano le aziende in base al comportamento (e.g. gestione di emissioni e reflui, qualità delle relazioni con i dipendenti, processi di governance), quindi qualsiasi azienda che viene valutata sulla bontà o meno dei suoi processi».
Qual è, in concreto, il ruolo che può giocare la finanza sostenibile nella transizione?
«La finanza sostenibile orienta i capitali verso le imprese che sviluppano soluzioni a problemi ambientali e sociali, riconoscendone il valore e accelerandone la crescita. In questo modo indirizza lo sviluppo dell’economia in chiave sostenibile.
Allo stesso tempo, ha il compito di selezionare e premiare anche quelle aziende che, pur non avendo un ruolo diretto nella transizione con il proprio prodotto o servizio, scelgono di gestire le operations in modo responsabile dal punto di vista ambientale e sociale. Così facendo, la finanza influenza i comportamenti aziendali e mette a disposizione risorse addizionali, capitale e strumenti, che permettono di intraprendere percorsi di miglioramento e di sviluppo».

Prima mi dicevi che, in questo ambito, non sempre i criteri sono chiari e trasparenti. Quali sono quindi le metriche più efficaci per misurare l’impatto degli investimenti sostenibili?
«Le metriche si dividono in due famiglie, in coerenza con i due approcci descritti in precedenza. Da un lato ci sono le metriche d’impatto, cioè quelle metriche atte a misurare l’effetto che il prodotto o il servizio dell’azienda genera sull’ambiente o sulla società. Si basano su framework di riferimento e, in alcuni casi, su schemi proprietari sviluppati dagli investitori (ndr: ad esempio, tra gli indicatori più usati rientrano le tonnellate di CO₂ evitate, i metri cubi d’acqua risparmiati, i MWh di energia rinnovabile prodotti e le tonnellate di materiali riciclati o recuperati). Dall’altro ci sono le metriche operative, quindi quelle che comprendono come un’azienda opera: gestione di emissioni e reflui, salute e sicurezza, capitale umano e governance. Il confine tra queste due famiglie, nel mercato, viene spesso confuso, ma per Ambienta è importante tenerle distinte.
Negli anni, l’industria ha prodotto troppe metriche: decine, a volte centinaia di KPI che diventano difficili da usare nella pratica. Una metrica serve se orienta una decisione; se è compilata “per dovere”, è fine a sé stessa. Per questo motivo, pur potendo rendicontare un set ampio, l’attenzione dovrebbe concentrarsi su poche metriche chiave (idealmente meno di 10), su cui investitori e management intendono davvero intervenire e migliorare.
Non esiste un paniere valido per tutti: dipende dal settore e dal modello di business. E le emissioni non sono necessariamente la priorità in ogni caso d’uso: per una società di servizi con soli uffici, ad esempio, possono non essere il focus principale; restano importanti, ma non è detto che siano le più rilevanti su cui concentrare gli sforzi».
Hai accennato alla varietà di metriche e criteri che caratterizzano questo ambito. In questo contesto, si parla spesso di rating ESG: ma cosa rappresenta davvero, e secondo te sono strumenti affidabili o devono ancora evolvere?
«I rating ESG sono strumenti che aggregano una grande quantità di informazioni con l’obiettivo di restituire, in modo sintetico, una prima valutazione del comportamento di un’azienda rispetto ai parametri ambientali, sociali e di governance.
L’idea è la stessa dei rating finanziari tradizionali: fornire una bussola semplice e immediata. Ma, a differenza di questi ultimi, i rating ESG si basano su insiemi di metriche molto diversi tra loro, e spesso ogni società di rating adotta propri criteri e pesi. Questo porta a risultati talvolta incoerenti: due agenzie che analizzano la stessa azienda, utilizzando anche solo cinquanta indicatori ciascuna ma con metodologie differenti, possono arrivare a valutazioni molto distanti. È un limite che oggi incide sulla loro affidabilità complessiva, ancora parziale e, talvolta, opinabile.
Resta però uno strumento utile, soprattutto in un’ottica di evoluzione. Come è già accaduto in altri ambiti della finanza, anche qui sarà necessario un percorso di standardizzazione: servono criteri comuni e condivisi per rendere i rating ESG davvero comparabili e rappresentativi. Oggi non sono perfetti, ma rappresentano una base importante da cui partire, e un segnale di maturazione del mercato».

In Italia c’è davvero consapevolezza su questi temi? Mi riferisco non solo ai cittadini, ma anche alle imprese: quanto la sostenibilità, e non solo la finanza sostenibile, è compresa e integrata nel nostro Paese?
«Se allarghiamo lo sguardo oltre la finanza, possiamo dire che la sostenibilità fa già parte del DNA industriale italiano, spesso in modo inconsapevole. L’industria italiana è sempre stata all’avanguardia nello sviluppo di soluzioni che utilizzano risorse naturali, energia, acqua, cibo e materiali in modo efficiente. È una caratteristica che deriva anche da motivi storici: come gran parte dell’Europa, l’Italia ha dovuto convivere con la scarsità di materie prime e con una forte attenzione all’inquinamento, dovuta anche al fatto che per decenni le fabbriche erano dentro le città.
Già dagli anni Cinquanta, con le prime direttive europee sulla gestione dell’inquinamento delle acque e dei fiumi, si è sviluppato un tessuto industriale che ha prodotto tecnologie e processi tra i più avanzati al mondo. Molti imprenditori o tecnici non parlerebbero di “sostenibilità” o “finanza sostenibile”: per loro si tratta semplicemente di migliorare un motore, rendere una pompa più efficiente o sviluppare un prodotto chimico meno inquinante. Lo fanno per competitività, non per etica.
E questo approccio ha dato risultati concreti: basti pensare che alcune delle principali aziende mondiali di irrigazione a goccia, una israeliana, una italiana nata in Sicilia e una indiana, sono nate proprio in aree dove l’efficienza delle risorse era una necessità.
Se invece ci allontaniamo dal contesto industriale e guardiamo al grande pubblico, la situazione è diversa. In Italia la narrazione della transizione ambientale è ancora sbilanciata sui rischi e sui problemi, più che sulle opportunità. Si parla di costi, sacrifici, minacce allo status quo, ma molto meno di ciò che la transizione ha già generato: nuovi settori produttivi, tecnologie esportate in tutto il mondo e una crescita dell’occupazione green.
Le merci e i beni legati alla sostenibilità ambientale sono oggi tra i comparti più dinamici dell’export europeo, ma questo aspetto raramente trova spazio nel racconto mediatico. Eppure, rappresenta una delle leve più concrete di sviluppo e di creazione di valore per il futuro».
In questo senso, in che modo la finanza sostenibile può supportare i settori più difficili da decarbonizzare, come quello dell’edilizia?
«L’edilizia è un settore complesso, nel quale possono agire diverse tipologie di investitori, ciascuna con obiettivi e orizzonti temporali differenti.
Chi investe nella catena delle materie prime, come nel caso del cemento, affronta progetti a lungo termine, più adatti a investitori industriali o infrastrutturali con una visione pluriennale. Diverso è il ruolo di chi finanzia tecnologie e soluzioni per l’efficienza energetica degli edifici, come pompe di calore, sistemi di monitoraggio dei consumi, materiali isolanti, dove intervengono operatori di private equity o venture capital, orientati all’innovazione e alla crescita.
Ogni tipologia di investitore può quindi contribuire alla transizione del settore, ma il ruolo centrale dovrebbe spettare a chi opera nel real estate, cioè nello sviluppo, nella gestione o nella riqualificazione del costruito. Ed è proprio qui che la finanza sostenibile può avere il maggiore impatto, supportando investimenti di rigenerazione e ammodernamento del patrimonio edilizio esistente.
In Italia, però, il comparto è ancora frammentato: mancano grandi operatori capaci di applicare su larga scala logiche industriali e criteri ESG, come invece avviene in altri Paesi europei. La presenza di tanti piccoli attori locali rende più difficile modernizzare il parco immobiliare nazionale. All’estero, invece, troviamo esempi di fondi e sviluppatori che investono in programmi di conversione energetica degli edifici, portandoli da classi G a classi A grazie a strumenti di finanza sostenibile.
In Italia siamo ancora qualche passo indietro: prima serve rafforzare e professionalizzare il settore, poi potrà emergere un numero maggiore di operatori in grado di integrare davvero la finanza sostenibile nel mondo del real estate».

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All’inizio ci hai spiegato che esistono due grandi famiglie di investimenti sostenibili. Restando in quest’ambito, e pensando a settori ad alta intensità di emissioni come quello del cemento, secondo te quanto è importante che le aziende non si limitino a finanziare progetti esterni di sostenibilità, ma che investano anche al loro interno per ridurre, o addirittura azzerare, la carbon footprint dei propri prodotti?
«È fondamentale. Per i grandi player industriali, come quelli del cemento, non basta sostenere progetti esterni o iniziative di compensazione: la vera sfida è ridurre le emissioni alla fonte, ripensando il proprio ciclo produttivo.
Questo significa esplorare tutte le leve disponibili — dall’efficienza energetica ai nuovi processi, fino all’uso di combustibili alternativi e materie prime secondarie — e integrare la circolarità nel modello industriale. Il recupero dei materiali da costruzione e demolizione, oggi ancora poco sviluppato, può diventare un tassello decisivo per abbattere l’impatto complessivo del settore.
Serve però anche un cambio di mentalità: l’innovazione non può più essere vista solo come un costo, ma come una condizione di competitività. In Europa la direzione è chiara: le norme e i finanziamenti premiano chi investe davvero in processi a basse emissioni. Per questo, per le aziende del cemento, la priorità dev’essere investire dall’interno, trasformando il proprio modello produttivo invece di limitarsi a compensare all’esterno».
Da insider del mercato, quali sono oggi gli ambiti in cui si stanno concentrando maggiormente gli investimenti sostenibili? E all’interno del comparto edilizio, quali sviluppi ti aspetti nei prossimi anni?
«Bisogna fare una distinzione geografica e settoriale. Nel mondo delle infrastrutture ci sono molti ambiti in forte sviluppo, a partire dalle energie rinnovabili e dai sistemi di storage per il bilanciamento delle reti, fino alle reti stesse e agli impianti per il trattamento delle acque e dei rifiuti. Sono settori che attirano un interesse crescente da parte degli investitori, anche per la loro capacità di generare impatti ambientali e sociali misurabili.
Ma la finanza sostenibile non riguarda solo le nuove infrastrutture: una parte importante della crescita viene anche dall’adozione di tecnologie esistenti, spesso già mature, che migliorano l’efficienza dei processi industriali. In questo campo l’Europa, pur avendo un’economia più lenta rispetto ad altre aree del mondo, conserva una leadership tecnologica globale: basti pensare alle soluzioni per l’efficienza energetica, per la gestione dell’acqua o per l’agricoltura di precisione, dove molte aziende europee sono punti di riferimento internazionali.
Lo stesso vale per il settore dell’edilizia, che è contemporaneamente uno dei principali consumatori di energia e uno dei campi più promettenti per la transizione. Gli edifici europei sono già tra i più efficienti al mondo, molto più di quelli americani, per esempio, e questo rende il comparto particolarmente interessante per gli investitori che cercano progetti concreti di riduzione delle emissioni e miglioramento delle performance energetiche.
Resta però un limite strutturale: l’edilizia è un settore fortemente ciclico, e questa volatilità può scoraggiare parte degli investitori. Gli incentivi pubblici, se non ben calibrati, rischiano di amplificare questa instabilità invece di attenuarla. L’esempio del Superbonus 110% lo dimostra: pur avendo dato una spinta al settore, ha anche accentuato la volatilità del mercato, rendendo più difficile pianificare investimenti di lungo periodo.
Detto questo, le opportunità non mancano. In Europa, e in Italia in particolare, l’edilizia sostenibile rappresenta uno dei fronti più concreti su cui la finanza può agire, unendo l’obiettivo economico a quello ambientale. La direzione è tracciata: il capitale seguirà sempre di più le imprese capaci di innovare, rigenerare e costruire valore duraturo intorno alla sostenibilità».
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