Laureato presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, dove insegna progettazione architettonica dal 2008 al 2011. Dal 1999 è autore di progetti di architettura, fotografia e comunicazione visiva per aziende e istituzioni pubbliche e private, ricevendo premi a concorsi nazionali e internazionali. Nel 2002 fonda new landscapes (<a href="http://www.newlandscapes.org/">www.newlandscapes.org</a>), studio di progettazione all’interno del quale sono state condotti progetti e ricerche sul rapporto tra l’uomo e l’ambiente, sulla percezione e la valorizzazione dell’immagine e dell’identità del paesaggio contemporaneo e sulla promozione di nuove forme di conoscenza e partecipazione. Dal 2016 è direttore della rivista di architettura e paesaggio Ark. È autore di oltre 50 pubblicazioni, tra libri, saggi e articoli specialistici sull’architettura, il paesaggio e la fotografia.
Costruttivismo al rovescio. Il Museo MAXXI di Zaha Hadid
Nel fulgore luminoso dell’opera di Zaha Hadid, risolutamente antitetica all’intimismo traboccante di storie, fiabe e racconti popolari propri di qualunque tradizione ad ogni latitudine del mondo, l’oscurità dell’architettura si dissolve in un bagliore uniforme, l’ignoto e il mistero si palesano, diventando una forma definitiva che non lascia spazio ulteriore all’immaginazione dell’occhio e dell’animo che la visita. Quella di Hadid è un’architettura tanto carica dell’immaginazione del proprio autore da attrarre coloro che vanno alla ricerca di un artista che immagini il mondo per loro. Questo è il limite che, senza pregiudizi ideologici, può essere riconosciuto nel suo lavoro. Un limite che è anche all’origine dello straordinario successo della sua opera.
In questa prospettiva è particolarmente significativo che sia proprio Patrick Schumacher, partner e coautore dello studio Hadid, ad affermare ne L’Italia di Zaha Hadid (Quodlibet, 2017) che il design del MAXXI, il celebre museo d’arte contemporanea costruito in una ex area militare nel quartiere Flaminio di Roma, «non è stato un lavoro molto originale». Deliberatamente più contenuto nelle sperimentazioni formali, meno complesso, dinamico e fluido se confrontato con i progetti precedenti dello studio, per questa ragione, di ordine pratico, il MAXXI ha dato prova di essere concretamente realizzabile, un requisito che ha certamente influito sulla vittoria di un concorso che ha visto partecipare i più celebri architetti della contemporaneità. Prosegue Schumacher: «Nel MAXXI tutto è stato razionalizzato in linee rette, archi, piani, cilindri e coni, pur ottenendo una notevole sensazione di dinamismo e fluidità, poiché abbiamo combinato tali forme elementari in una composizione fluida».
Il MAXXI è un prodotto della cultura degli anni ’90, uno dei momenti più indefiniti nei campi dell’arte, della progettazione, del design, in cui le citazioni post-modern e le deliranti e ancora embrionali manipolazioni consentite dai software di modellazione tridimensionale esprimevano la temperie di un’Europa che aveva varcato il muro di Berlino e si apprestava a liberare le pulsioni dell’allora emergente neo-capitalismo globalizzato. Il contesto romano, denso di stratificazioni storiche e da una cultura ancora permeata di continuità con una tradizione, ha avuto un ruolo tutt’altro che trascurabile nel placare le incandescenti ambizioni del mondo immaginale di Hadid, che qui raggiunge un esito privo di eccessi inusitati e che riesce così a reggere alla prova del tempo meglio di altri lavori.
Come nel padiglione Landesgartenschau per il festival di giardinaggio paesaggistico di Weil am Rhein (1996-99), che del MAXXI anticipa le idealità espressive, la plasticità dello spazio dell’architetto anglo-irachena si avviluppa all’intorno, di cui esprime i campi di forze, le linee generatrici, i flussi. Movimenti che si traducono in fasci, e in cui non è difficile intravedere l’estetica delle reti per le telecomunicazioni.
Simbolico precipitato della Rete globale, nel MAXXI sono l’interconnessione, la cablatura continua dello spazio, il movimento, il continuum di un mondo isotropo privo di alberi, montagne e altri ostacoli geologici a disegnare un nuovo orizzonte artificiale, illuminato da una luce uniforme già annunciata nei disegni giovanili dell’architetto-artista, tracciati con l’acrilico bianco su cartonicini neri, ossia su una uniforme oscurità che non ha alcuna nostalgia del sole e delle sue ombre. Se la confluenza tra grandi fiumi è la geografia d’origine di Hadid, quella Mesopotamia consegnata ai miti dell’infanzia, qui le convergenze e le intersezioni di una sconfinata superficie globale si reificano in un sistema di nodi e fluttuanti superfici che hanno il pregio di enfatizzare la materia di cui sono fatte: il calcestruzzo. Un materiale che ancora una volta dà una eccellente prova della propria duttile natura e delle sorprendenti tensioni a cui può prestarsi. La tecnologia impiegata al MAXXI è la migliore disponibile, la formulazione di una speciale miscela e l’impiego di raffinatissimi casseri annullano le discontinuità, i giunti, le imperfezioni che il celebre assunto lecorbusiano individuava nella primordiale manifattura del beton brut.
Le pareti in cemento a vista, con la loro perfetta e isotropa continuità, oltrepassano passaggi aerei, proseguono nel vuoto come un’aurora boreale riprodotta in laboratorio, definendo gli incerti confini delle gallerie espositive e orientando i movimenti dei visitatori. Le nervature parallele che sorreggono l’ininterrotta copertura piana di vetro concorrono a disegnare una invisibile meccanica dei fluidi i cui partitoi, paratie, deviatori direzionano le sequenze delle esposizioni. L’Art Nouveau, le illustrazioni di Beardsley, i tessuti damascati in voga tra ‘800 e ‘900 giungono fin qui e assumono le forme e i toni dell’oggi, dominate dall’impermanenza della Rete.
A far loro da contraltare, la consistenza fisica del MAXXI – 50.000 metri cubi di calcestruzzo gettato in opera, equivalente a una ideale piastra monolitica di 50 x 50 metri di lato e alta 20 metri -, si svuota gradualmente, si piega, si lascia attraversare dalle correnti fino ad assumere l’assetto definitivo, quello di una cavità porosa di dimensioni colossali.
Per la costruzione del MAXXI, Calcestruzzi installa all’interno del cantiere un impianto dedicato alla produzione di una innovativa miscela, al fine di ottimizzare la produzione e fornire una tempestiva risposta alle richieste della committenza (Ministero per i Beni e le Attività Culturali) e dell’impresa (Italiana Costruzioni S.p.A. e SAC S.p.A.).
La necessità di ottenere grandi strutture architettoniche curvilinee prive di difetti e la conseguente volontà di eliminare le ordinarie discontinuità che caratterizzano le masse di calcestruzzo gettato in opera portano alla costruzione di superfici prive di giunti. L’assenza del giunto insegue l’estetica di una contemporaneità priva di saldature, gocciolatori, gronde, sporti, mensole, cornici, lesene. Come in un gigantesco limbo fotografico, la luce scivola sulle superfici liquide senza incontrare discontinuità, anche oltre le controllate stanze per le esposizioni.
Le difficoltà legate alla corretta stagionatura del calcestruzzo a seguito della rimozione dei casseri, ha portato allo sviluppo – nei laboratori ENCO sotto la supervisione del prof. Mario Collepardi e nel Centro Innovazione di Italcementi -, di una specifica formulazione che ha costituito una novità nell’ambito dell’industria delle costruzioni italiana.
È lo stesso Collepardi a fornirci una testimonianza di quella singolare esperienza: «Il progetto prevedeva muri curvi ed inclinati, alti oltre 10 metri e lunghi più di 100 metri, privi di fessure ancorchè per ragioni estetiche non fossero consentiti giunti di contrazione. Data la difficoltà di raggiungere questo obiettivo, il progettista strutturale, Prof. Giorgio Croci, contattò la ENCO per la messa a punto di un nuovo calcestruzzo speciale. Il calcestruzzo messo a punto dalla ENCO fu definito “3SC”, cioè tre volte “self”: self-compacting concrete (grazie alla presenza di un additivo superfluidificante), self-compressing concrete (grazie alla presenza di un agente espansivo a base di ossido di calcio cotto a circa 1000°C), self-curing concrete (grazie alla presenza di un additivo stagionante anche in assenza di bagnatura delle superfici). Per evitare che il traffico congestionato di Roma rallentasse le autobetoniere, con conseguente perdita della lavorabilità al momento del getto, la società Calcestruzzi, sotto la supervisione dell’ing. Giuseppe Marchese, costruì una centrale di betonaggio in prossimità del cantiere. Lo straordinario risultato del lavoro è testimoniato dalle “onde” di calcestruzzo che formano i muri del MAXXI, privi di fessure».
Esito di tale combinazione di innovazioni tecnologiche è una parete curva di 53 metri, la più lunga al mondo ad essere priva di giunti. Il cantiere viene sottoposto alle sollecitazioni di un progetto che rifiuta gli assunti tradizionali della tecnica delle costruzioni in cemento – quali il giunto e il calco come evidenza del processo costruttivo -, per produrre un’entità organicamente continua. È il trionfo della biologia proteiforme e invertebrata sull’ossatura degli organismi vertebrati i cui vincoli e articolazioni impongono possibilità di movimento finite.
Una tecnologia di casseratura bespoke (sistema Peri Vario GT 24) particolarmente avanzata in relazione alla notevole complessità, allo sviluppo in altezza (fino a 14 metri) e al peso delle strutture architettoniche (fino a 15 tonnellate per metro quadro) e un trattamento liquido protettivo delle superfici a base di fluoruri hanno contribuito infine ad incrementare la resa estetica e la resistenza del materiale all’esposizione ai fenomeni atmosferici.
Smantellata qualunque responsabilità ecocentrica, il museo romano di Hadid, nel clima di fiducioso progresso degli anni ’90 del secolo XX, sembra trarre la propria ispirazione, oltre che dal visionario, astratto e cerebrale compendio di disegni dei Costruttivisti sovietici degli anni ’10 e ’20, dal deserto mediorientale, dal suo silenzio, dall’incessante mutare delle geometrie di una duna, dall’estenuante attesa dell’ora propizia e di un recinto artificiale che possa difendere gli uomini dall’inclemenza dell’ambiente.
Nel breve compendio di riflessioni suggerite da questo audace museo, non sono allora le sole parole del vocabolario tessile a sorgere nella mente quando si approcciano i disegni preliminari che, nel 1998, Zaha Hadid traccia per il concorso. Il rovescio è il lato invisibile, è l’orizzonte nascosto, è il territorio di espressione e lavoro del compositore di abiti, è l’interiorità che deve garantire solidità meccanica, resistenza, robustezza a qualunque artefatto tessile. Quando è deliberatamente esibito, esprime una volontà di destrutturare codici e protocolli, di sovvertire qualunque convenzionale appello al decoro. È l’assunto primario della corrente filosofica ed estetica nota come decostruzionismo a fare del rovesciamento, del ribaltamento dei codici una forma espressiva. Fu il giovane Frank O. Gehry, con la casa costruita per sé a Santa Monica, a rovesciare l’immagine consueta della villa suburbana, invertendo il significato di fronte e retro: frontyard e backyard cambiavano posto, destando lo sconcerto e l’irritazione del vicinato piccolo-borghese e della cultura architettonica conservatrice. Da allora pare, assurdamente, che non esistano più altre possibilità per l’espressione architettonica, chiamata a rispondere alla sola società dello spettacolo più che alla solidità di un’intrapresa.
L’irachena Hadid, dopo una laurea in matematica e divenuta studente alla Architectural Association di Londra, scruta le audaci prospettive dei Costruttivisti russi – Moholy-Nagy, Tatlin, El Lissitzky, Melnikov e con insistita devozione Malevic -, dei quali intuisce la volontà di decomporre l’architettura proiettandola nello spazio infinito, lungo le traiettorie di una allora inarrestabile rivoluzione sociale e tecnica. Quelle accelerazioni, quelle sfide alla gravità si traducono nei suoi disegni in linee che si prestano ad essere trafilate in barre metalliche senza fine curvate da una calandra.
Il calcestruzzo può fare altrettanto? Il MAXXI ne è la prova.