Da oltre 20 anni lavora nel marketing e nella comunicazione. Come giornalista, ha curato e cura gli Uffici Stampa di alcune importanti realtà nazionali come l’Unione Camere Penali Italiane e il Consiglio Nazionale Ingegneri. È tra le fondatrici del Green TG, prima web TV italiana dedicata ai temi ambientali.
Abbiamo paura dei processi innovativi? Intervista a Stefano da Empoli, Presidente I-Com
Prevedere un’epoca così incerta e liquida può assomigliare al compito di un indovino o del più ispirato degli aruspici. Eppure, tecnici ed economisti sanno come rintracciare una rotta ritenuta impensabile sino a un attimo prima del loro intervento. L’irruzione degli esperti in dibattiti intricati, polarizzanti e complessi consente sovente di mettere ordine tra le previsioni degli “apocalittici” e quelle degli “integrati”. Una mediazione necessaria, quella dei saperi accademici, utile ad abbassare il volume di duelli troppo spesso emotivi e cruenti tra chi pensa alle rivoluzioni tecnologiche epocali come a una sciagura e chi vi scorge invece un’opportunità da cogliere. A immaginare vie concretamente percorribili per “pensare e costruire” innovazione è il prof. Stefano da Empoli, presidente dell’Istituto per la Competitività (I-Com) e docente di Economia politica all’Università Roma Tre. L’Istituto è un think tank fondato nel 2005 da un gruppo di studiosi, professionisti e manager con sede a Roma e a Bruxelles. L’obiettivo di I-Com è promuovere temi e analisi sulla competitività in chiave innovativa all’interno del quadro politico-economico italiano, europeo e internazionale. I principali settori di interesse di I-Com sono: digitale, energia, innovazione, salute e istituzioni. Nel luglio 2017 l’Istituto per la Competitività ha aderito al Global Trade and Innovation Policy Alliance, una rete internazionale di think tank attivi sui temi dell’innovazione.

Il primo demone da scacciare dal novero delle paure odierne è quello dell’automazione del lavoro. Secondo quanto scrive l’Economist, le ricerche su Google per la query «Il mio posto di lavoro è sicuro?» sono raddoppiate a livello mondiale nei mesi successivi all’uscita di ChatGPT. Si tratta di un fenomeno così straordinariamente dirompente? Esistono studi con delle previsioni accettabili sugli impatti di questa innovazione e in generale dell’AI sulla trasformazione del lavoro? Quali categorie professionali sarebbero più a rischio?
«Di studi ce ne sono tantissimi ma nessuno a mio avviso è in grado di rispondere con totale certezza e precisione a questa domanda. Al massimo si possono fare delle congetture, ragionando per differenze rispetto alla situazione immediatamente precedente. Certamente, quello che è cambiato con l’AI generativa rispetto ai processi classici di automazione è la percezione che anche i lavori concettuali siano a concreto rischio e non solo quelli puramente ripetitivi. In un paper del marzo 2023, dunque a pochi mesi dal primo rilascio di ChatGPT, alcuni economisti americani, E. Felten, M. Raj e R. Seamans, in base a un indice elaborato alcuni anni prima, hanno trovato che le professioni più esposte all’AI fossero i venditori via telefono nonché gli insegnanti delle scuole (in particolare, di lingue straniere, storia, filosofia e religione). Nella precedente rilevazione effettuata con la stessa metodologia solo due anni prima, avevano individuato quelle a maggior rischio tra i consulenti genetici, supervisori finanziari e attuari. In altre parole, mentre prima a rischiare di più erano i lavori basati sulle elaborazioni numeriche, con l’AI generativa lo sono quelli fondati sul linguaggio a un livello in media non sufficientemente qualificato. Altri studi successivi hanno notato un impatto significativo sugli editor e i copywiter, con significative riduzioni di compenso negli USA per i lavoratori free lance, effetto della minore domanda. In generale, possiamo dire che gli impatti aumentano non solo sulla base dell’esposizione ma anche della complementarità o meno del lavoro umano con quello delle macchine. Minore è questa complementarità più elevato è il rischio di sostituzione. In uno studio del 2024, i ricercatori del Fondo monetario internazionale hanno stimato nel 60% la percentuale di lavoratori esposti nei Paesi più sviluppati ma di questi poco più della metà erano quelli effettivamente a rischio. Questi numeri sono però influenzati da tre fattori che non sono nel nostro controllo. Il primo è l’evoluzione della tecnologia che cambia le possibilità di sostituzione, a seconda della sua traiettoria, sulla quale c’è però estrema dissonanza anche tra gli scienziati che ci lavorano quotidianamente. Altro fattore rilevante è la velocità di adozione da parte del sistema produttivo che potrebbe essere meno veloce del previsto, per una serie di questioni di carattere organizzativo o anche culturale. Infine, l’elemento a mio avviso più decisivo, la risposta del sistema educativo e formativo. Qualora quest’ultimo riesca a intercettare il cambiamento in atto le conseguenze sarebbero certamente meno disruptive e molti rischi si potrebbero trasformare in opportunità».

Con l’avvento delle ultime versioni di AI generativa, l’OCSE stima che le occupazioni a più alto rischio di automazione rappresentino circa il 27% di quelle attuali. L’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, nel suo Rapporto, esorta i governi a prendere le contromisure necessarie. Come può agire e con quali strumenti il decisore politico di fronte a cambiamenti di così ampia portata?
«Come detto, credo la differenza la facciano soprattutto le misure di upskilling e reskilling dei lavoratori attuali e il sistema di istruzione di quelli di domani. Sono convinto sia questa la prima priorità sulla quale il sistema istituzionale, insieme ai rappresentanti dei datori di lavoro e dei lavoratori, dovrebbe concentrarsi. Solo in seconda battuta e come last resort (ma ovviamente in prospettiva in maniera efficace e capiente) si devono prevedere strumenti di welfare per le persone che perderanno il lavoro o saranno comunque colpite sfavorevolmente dai cambiamenti in atto. Né tantomeno ha alcun senso fermare l’innovazione che è un’onda che deve essere invece cavalcata specie in un Paese come l’Italia, con una produttività stagnante da diversi decenni. Teniamo peraltro conto che l’AI è anche un ottimo strumento per fronteggiare il declino demografico e rimpiazzare i milioni di lavoratori in meno dei prossimi decenni senza dover ricorrere a un’immigrazione di massa».
Secondo un’indagine recente il 40% delle aziende utilizza l’AI nei propri processi mentre il 54% punta a introdurla entro tre anni. È usata principalmente per gestire il servizio clienti e migliorare la user experience (56%) e il marketing. Come si può far convivere l’automazione con il lavoro? Lo stesso studio analizza come le professioni direttive e maggiormente qualificate sarebbero al sicuro mentre le altre potrebbero essere destinate a sostituzione. Cosa ne pensa?
«Certamente le funzioni direttive sono anche quelle che richiedono maggiore pensiero critico, caratteristica umana al momento impossibile da sostituire. Così come ad oggi si può sostituire un copywriter ma non un romanziere di successo, con il suo stile distintivo e la capacità di rapportarsi ai propri lettori. Occorre però non dare per scontato nulla e nel frattempo attrezzarsi per essere in grado di lavorare meglio grazie all’AI. Dico sempre che la vera sfida non è tra persone e macchine ma tra persone che sono in grado di farsi aiutare dalle macchine e queste ultime o chi non lo sarà. Ci sono, e a mio avviso ci saranno sempre, fattori che ci renderanno necessari, ma al tempo stesso in pressoché nessuna professione, sia pure a dosi diverse, si potrà disconoscere l’utilità degli algoritmi. Sarebbe come pensare di fare a meno delle calcolatrici quando c’è da fare un calcolo complicato. Eppure i matematici e gli statistici non sono scomparsi ma fanno semplicemente cose differenti dal passato».

Un altro timore è nella cosiddetta transizione green. C’è chi ritiene si farà approdo a un nuovo modello eco-sostenibile, c’è chi reputa questa mutazione irraggiungibile. Nel mezzo ci sono processi di decarbonizzazione che prevedono una riduzione massiccia delle emissioni entro il 2030. Lei cosa pensa di questo obiettivo e di questo genere di percorsi, adottati anche in comparti particolarmente energivori, come quello dei materiali da costruzione?
«Credo che la direzione sia quella giusta e sia inconcepibile metterla in discussione. Ho maggiori riserve su quello che si è fatto e si sta facendo su impulso dell’Europa. E lo dico da europeista convinto che però crede non si possa nascondere la polvere delle politiche sbagliate sotto il tappeto. Sul Green Deal e ancora più da lontano sulle policy degli ultimi quindici anni per favorire la transizione ecologica hanno pesato a mio modo di vedere tre errori di fondo: innanzitutto, un disaccoppiamento tra politiche dell’energia e ambientali, da un lato, e politiche industriali, dall’altro. L’esempio più clamoroso è forse rappresentato dal fotovoltaico, settore nel quale molte decine di miliardi di incentivi a carico dei consumatori europei sono andati di fatto a finanziare il sistema industriale cinese. C’è poi un’altra asimmetria che pesa negativamente, quella tra europeizzazione degli obiettivi e della regolamentazione ma non della strategia energetica né delle politiche industriali. In questo modo, si riducono le sinergie e si massimizzano le inefficienze e le rendite di posizione, a vantaggio di pochi e a danno di moltissimi, cioè la totalità dei consumatori domestici e industriali. Infine, il sostanziale abbandono nella scorsa legislatura del principio della neutralità tecnologica non fa che danneggiare l’innovazione, che deve invece essere libera di incanalarsi con i propri tempi, sia pure il più possibile accelerati, e sul proprio sentiero di sviluppo per dare i migliori risultati».
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