Laureata in economia e commercio all’Università Cattolica di Milano, è giornalista professionista dal 2004. Nei primi anni della sua carriera ha lavorato per tv locali e nazionali sviluppando le tecniche video. Successivamente, ha collaborato con differenti testate online e agenzie di comunicazione specializzandosi nel linguaggio SEO. È esperta in temi economici, legali e immobiliari, con particolare focus sui nuovi modelli produttivi sostenibili. Le sue passioni? Il pianoforte e i puzzle.
Trasparenza negli appalti e PNRR. Intervista all’avv. Domenico Ielo
Le migliaia di procedure di gara legate al PNRR e al PNC (Piano Nazionale Complementare al PNRR) ripropongono con urgenza il tema della trasparenza senza la quale è impossibile garantire l’equità, l’efficienza e l’integrità nel settore degli appalti. Compresi, ovviamente, quelli che riguardano il settore dell’edilizia.
Abbiamo voluto discuterne con l’avvocato Domenico Ielo che da quasi 30 anni si occupa di diritto pubblico, con particolare riferimento agli appalti pubblici e ai partenariati nei settori ordinari e speciali. È stato docente a contratto all’Università Statale di Milano, dove ha insegnato diritto dei contratti pubblici e diritto amministrativo europeo, ed è organizzatore e docente dei master “Appalti e contratti” e “Data Protection Officer e Digital Transformation” al Politecnico di Milano.
Avvocato, attualmente nel mondo degli appalti sono presenti due binari: quello del nuovo codice (D.lgs. 36/2023) e le norme speciali per velocizzare l’attuazione del PNRR. Non c’è un rischio di confusione e minor trasparenza?
«A mio avviso no, perché il binario del PNRR, pur ispirando il nuovo codice, è stato mantenuto separato soprattutto per ragioni di urgenza. In base alla mia esperienza, posso dire che gli operatori economici conoscono bene le particolarità del PNRR, soprattutto in materia di tempistiche. Vanno, poi, chiariti diversi punti. Il primo: non tutti gli affidamenti del PNRR sono governati dalle procedure tipiche del Codice appalti. Ne sono esempi gli affidamenti per i fondamentali investimenti “1 Giga” e “Piano Italia 5G”, che non sono né appalti, né classiche concessioni, ma in senso ampio partenariati. In altre parole, il mondo del PNRR è più ampio perché coinvolge anche investimenti che hanno regole proprie, segnate dalle rispettive norme di investimento. Secondo punto. La normativa sul PNRR è: i) temporanea, perché si applicherà fino al 2026; ii) peculiare, in quanto legata all’urgenza del raggiungimento di milestones e target. Le faccio un esempio pratico di tale peculiarità. Esiste una norma speciale in base alla quale se il RUP (Responsabile Unico del Procedimento) ritiene che il rispetto delle procedure ordinarie possa pregiudicare il rispetto della tempistica, può attivare una procedura negoziata. Procedura che, tradizionalmente, è eccezionale e legata a rigidi presupposti oggettivi (in questo caso invece abbiamo un presupposto soggettivo, ovverosia la valutazione del RUP)».
Uno dei punti più criticati del nuovo codice è l’innalzamento delle soglie oltre le quali dover indire una gara di appalto aperta e, quindi, l’aumento contestuale di affidamenti diretti e procedure negoziate che potrebbero generare affidamenti meno “trasparenti”. È davvero così?
«Il pericolo esiste in via di principio, perché aumentare lo spazio degli affidamenti diretti e di quelli negoziati presta il fianco a una maggiore discrezionalità. Ma questo rischio può essere ridotto. Le Stazioni appaltanti potrebbero, per esempio, attivare meccanismi trasparenti e tracciati, quali i sistemi di qualificazione o albi ditte, indicando preventivamente ed esplicitamente i criteri per la chiamata diretta o per la negoziazione. Tutti questi criteri e accorgimenti sono tipicamente fissati nei piani anticorruzione e la loro corretta applicazione dipende dalla responsabilizzazione e sensibilizzazione della Stazione appaltante. Nei settori speciali, ad esempio, quali gas, energia, aeroporti ecc., questo avviene da sempre e funziona bene. Tramite un buon sistema di qualificazione, le imprese pubbliche (che sono stazioni appaltanti) qualificano merceologicamente i propri fornitori, individuando le loro caratteristiche e poi, al bisogno, attingono da questo forziere di fornitori tramite procedure trasparenti. Infine, evidenzio che la maggiore discrezionalità degli affidamenti diretti e negoziati potrebbe essere compensata dall’utilizzazione, da parte delle Stazioni appaltanti e Pubbliche Amministrazioni, delle check list ANAC sugli affidamenti diretti e sulle procedure negoziate (PNA 2022 All. n°8 – Check-list per gli appalti). Dunque, ci può essere un maggiore rischio connesso agli strumenti di semplificazione. Ma come tutti i rischi, anche questo potrebbe essere affrontato e gestito. Il che dipende molto dalla responsabilizzazione della Stazione appaltante. È questa la logica del nuovo codice. La maggiore discrezionalità va bene, purché sia esercitata alla luce del sole».
Il nuovo codice punta anche sulla digitalizzazione. Per Heidelberg Materials, ad esempio, è tra gli elementi strategici per garantire procedure trasparenti ed efficienti. Come può, quindi, la digitalizzazione favorire una maggiore trasparenza?
«Questo è un tema che tocca le mie corde; nel 2015 pubblicai un libro sull’Agenda digitale, in cui un capitolo era proprio dedicato alla digitalizzazione come strumento di promozione della trasparenza, dell’efficienza e della prevenzione di fenomeni illeciti. Digitalizzare significa tracciare i processi decisionali; si può vedere chi ha fatto cosa, perché e quando è stato fatto. E questo comporta un vantaggio della stragrande maggioranza di pubblici amministratori che, ogni giorno, lavorano nell’interesse della collettività e hanno il diritto di non essere contestati per l’attività svolta.
Le faccio un esempio di come la tracciabilità dei processi decisionali potrebbe “aiutare” il pubblico amministratore corretto. Ipotizziamo che venga contestato un “bando fotografia” e si apra un’indagine penale. Ciò che ne deriva ricorda un po’ quella famosa canzone degli anni ’70 “Chi ha rubato la marmellata?”. Si ricerca chi ha commesso, concorso o anche solo agevolato il presunto illecito penale (chi ha inserito un requisito, chi ha ristretto la platea dei possibili partecipanti ecc.). Può accadere – e sovente accade in questi settori – che l’indagine penale assuma uno spettro ampio, coinvolgendo una pluralità di dipendenti (per esempio tutto il team gare) e, quindi, anche persone assolutamente corrette ed estranee da qualunque illecito. Per un dipendente onesto e corretto, essere coinvolto in un’indagine penale è un peso ingiustificato e gravoso. Riavvolgiamo il nastro. Pensiamo a un sistema digitalizzato. Si potrebbe arrivare anche ad apposite piattaforme blockchain; cosa che l’art. 30 del nuovo codice appalti consente. In questo sistema sono individuati nominativamente i soggetti che detengono i documenti e informazioni rilevanti, i soggetti che partecipano alla predisposizione dei documenti di gara, chi ha avanzato una proposta di inserire un determinato requisito tecnico, un limite di fatturato, una specifica tecnica ecc. In questo caso è chiaro e incontestabile chi ha parlato, proposto, discusso, istruito, gestito, e quale è il contenuto e il contributo di qualunque proposta, discussione ecc. Avremmo una scatola nera dalla quale evincere chi ha fatto cosa, come negli aerei. Magari, sempre come negli aerei, ordinariamente inaccessibile, ma eventualmente resa accessibile alle Autorità di controllo e/o investigative. In questo caso, per il dipendente attento e corretto, il rischio di essere coinvolto in una rete a strascico di indagini sarebbe di gran lunga minore. Al contempo, aumenterebbe una responsabilizzazione di tutti.
Vorrei fare un esempio connesso alla mia attività. Come avvocato, mi capita di seguire soggetti quotati in borsa e, conseguentemente, di essere in possesso di informazioni privilegiate. In questi casi, mi arriva una comunicazione con cui mi si riferisce che sono stato inserito in un elenco delle persone in possesso di informazioni privilegiate. L’effetto pratico di questo inserimento è che, quando ricevo una telefonata da parte di una qualsiasi banca che mi offre strumenti di investimento, rifiuto a prescindere, perché non voglio assumere il minimo rischio di contestazioni. Ecco, se sei tracciato sei più responsabile.
La digitalizzazione serve a questo: rendere incontestabili e ricostruibili ex post processi e azioni. Ma a tale riguardo, occorre a mio avviso una precisazione. La digitalizzazione produce dati, ma questi non bastano a generare informazioni. I dati vanno conservati, analizzati e utilizzati bene per creare schemi significativi a supporto delle decisioni. La digitalizzazione del dato è, per così dire, la porta di ingresso di un percorso che si regge sulla corretta utilizzazione e gestione dei dati».
Un altro momento a “rischio irregolarità” è la scelta della fornitura del materiale necessario al cantiere, pensiamo ad esempio al cemento e al calcestruzzo. Ci sono dei punti che potrebbero essere migliorati in tema di trasparenza ed etica degli acquisti?
«A mio modo di vedere sì. Sul tema del calcestruzzo e del conglomerato bituminoso, che sono materiali molto delicati e cruciali, uno degli aspetti più importanti è tracciare la filiera per poter ricostruire l’aspetto del riciclo del calcestruzzo, gli impatti ambientali, l’origine, ecc. A mio avviso, ad ogni modo, non dobbiamo inventarci troppo, perché esistono già i criteri ambientali minimi (CAM) che prevedono tale tracciabilità della filiera. Laddove affidino appalti ricadenti nella categoria merceologica rientranti nei decreti CAM (edilizia, gestione rifiuti ecc.), le stazioni appaltanti devono applicare obbligatoriamente questi CAM, i quali prevedono criteri di base, che se non rispettati precludono la partecipazione alle gare, a altri criteri premianti che, come tali, se rispettati assicurano punteggi aggiuntivi in gara. Esiste ovviamente anche un CAM sull’edilizia, che ultimamente tra l’altro è stato aggiornato e prevede una serie di criteri per la ricostruibilità del ciclo di vita dei materiali utilizzati, la distanza massima di approvvigionamento, la quantità di materiale da calcestruzzo riciclato. Sono criteri che, se bene utilizzati, potrebbero fornire valore aggiunto in questo mercato che, ripeto, è molto delicato. Per questo, a maggior ragione, è giusto premiare le società serie e le imprese che lavorano per prevenire comportamenti opportunistici, consentendo una piena ricostruibilità del ciclo di vita degli inerti. Per un’attuabilità concreta dei CAM occorre mettere in pista un sistema di controllo sulla loro applicazione, sulle certificazioni e sui sistemi di assessment.
Nella mia esperienza, ho riscontrato due problemi pratici. Non c’è ancora un’adeguata capacità di controllo, sul fatto che i CAM siano effettivamente applicati in fase di esecuzione. Secondo problema: parliamoci chiaro, applicare un CAM costa all’impresa. E i costi per forza di cose devono essere computati a base di gara. Ma c’è un problema di prezziari, ad esempio legati a una filiera accorciata o ad una ISO. Spesso i prezziari non sono adeguati rispetto ai CAM. Quindi, diventa molto difficile misurare economicamente il CAM e computare correttamente i costi ai fini della base di gara. La conseguenza è che un qualcosa di obbligatorio e utile sovente non viene correttamente applicato. Se invece ciò avvenisse, non servirebbero nuove norme, perché il CAM sarebbe già un ottimo strumento per ricostruire il ciclo di vita di materiali essenziali quali cemento, calcestruzzo e conglomerati».
In base alla sua esperienza, su cento appalti irregolari quanti lo sono perché c’è effettivamente una precisa volontà di infrangere le norme e quanti, invece, sono frutto di errori dovuti a una normativa ampia che potrebbe generare confusione?
«La domanda non è semplice e potrebbe prestarsi a errate generalizzazioni. Cercherò di dare una risposta tecnica, imperniata su tre puntualizzazioni. La prima: in base alla mia esperienza, nella maggior parte dei casi, l’errore è frutto della confusione e non del dolo. Ma – e questo è il secondo punto – ritengo che a volte la confusione sia altrettanto pericolosa quanto il dolo, poiché è un humus confortevole per comportamenti illeciti o comunque non regolari. Terzo: laddove c’è confusione, il confine tra colpa e dolo diventa labile. Mi spiego meglio. Se si crea un’ambiente tossico in cui sistematicamente la componente politica degli enti inizia a interessarsi alle procedure di appalto per sapere, ad esempio, chi ha presentato un’offerta e il contenuto delle offerte (mentre si stanno svolgendo le procedure), se tra gli aspiranti appaltatori si diffonde la convinzione che per non essere svantaggiati rispetto ai concorrenti è necessario trovare uno “sponsor” all’interno della Stazione appaltante (magari è solo una voce, ma si diffonde comunque), se negli uffici non c’è una chiara consapevolezza di cosa voglia dire “segreto di ufficio”, in questi casi distinguere la colpa dal dolo è difficile. La confusione scoraggia la serietà e la professionalità. Bisognerebbe definire quello che io chiamerei “l’algoritmo della serietà”, ovverosia una struttura in cui, ad esempio, la PA interagisce con i privati, ma tramite le consultazioni preliminari di mercato prima della gara e tramite i chiarimenti durante lo svolgimento della procedura. Piero Angela diceva che l’Italia è un paese morto perché non ci sono punizioni per chi sbaglia e premi per chi merita. La situazione della confusione negli appalti può agevolare una situazione di questo tipo. Non c’è molto dolo. Ma a volte la confusione è peggio del dolo».
La Procura europea ha affermato recentemente che su 206 inchieste attive sull’utilizzo dei fondi del Recovery Fund, 179 riguardano l’Italia. Quali sono i punti deboli degli appalti sui cui è necessario intervenire, quindi?
«Ce ne solo tanti, ne elenco alcuni. Il primo è che la Pubblica Amministrazione italiana non è preparata ad affrontare, non tanto l’appalto pubblico, quanto il partenariato pubblico-privato, ovverosia tipicamente la concessione, strumento diverso dall’appalto perché strutturata su un progetto finanziario e industriale. Il partenariato è più complesso. Presuppone la realizzazione di opere pubbliche e servizi pubblici tramite capitali privati, bisogna scegliere non tra semplici diverse offerte, quanto tra diversi piani industriali. È necessaria una competenza da project management delle opere pubbliche che purtroppo, a mio avviso, in questo momento non c’è. Il partenariato pubblico-privato, secondo me, è il futuro, consentirebbe di realizzare molte opere pubbliche, dall’efficientamento energetico, ai porti e gli aeroporti, fino al rinnovamento delle strutture carcerarie, scuole, ospedali. Manca purtroppo ancora una cultura sui partenariati. Secondo, nel nuovo codice degli appalti si sono dimenticati di inserire una norma che prima c’era: l’obbligo di gara per gli appalti cosiddetti “sovvenzionati”, vale a dire quei finanziamenti pubblici superiori a soglia maggiore pro del 50%, fatto che tra l’altro è stato segnalato anche dall’Anac.
Ma ritornando all’elenco dei punti deboli sui cui intervenire, li cito per fasi. Primo, nella fase di progettazione: anche importanti studi di progettazione a volte realizzano progetti non adeguati e, nonostante ciò, potrebbero ottenere comunque dalla Stazione appaltante il “bollino verde” della validazione del progetto. Insomma, il progetto dovrebbe essere rispedito al mittente (progettista) ma questo non sempre avviene. Secondo: fase dell’affidamento. Qui il problema sono i contratti di avvalimento finti: si dichiara di avvalersi delle risorse di un altro soggetto, ma è tutta carta straccia. Poi, soprattutto per quanto riguarda il PNRR, c’è più difficoltà a individuare il titolare effettivo della commessa pubblica, ovvero colui che riceve il finanziamento. Esistono, inoltre, accordi di cartello tra operatori che vanificano le procedure di gara. Ancora, il controllo sulle offerte anomale è spesso solo formale e non adeguato. E le offerte piratesche (sottoprezzo) ledono sempre gli appaltatori seri e determinano un rischio di concorrenza sleale».
Ci sono poi anche le clausole sociali…
«Siamo tutti contenti che ci siano, ma chi controlla in fase di esecuzione che siano realmente applicate? C’è il rischio di un forte dumping sociale. Mi ricordo, ad esempio, di una clausola sociale in cui era stata utilizzato come criterio di selezione la “loggatura”, vale a dire la priorità di riassunzione per chi aveva già operato per più tempo nell’appalto precedente dal momento del log in al momento della conclusione. Ma magari tra loro c’è chi è impossibilitato a essere assorbito realmente. Chi controlla? Terzo, e siamo nella fase di esecuzione. È sempre stato preso poco in considerazione il mondo delle riserve, che a mio modo di vedere andrebbe interamente rivisto. Il sistema attuale delle riserve è formale, bizantino e nello stesso tempo pericolosissimo perché, da una parte ci sono pretese degli appaltatori che sono legittime e che potrebbero non essere soddisfatte, dall’altra ci sono riserve confezionate solo per fare pressione economica sulla stazione appaltante. Qui, ritorniamo sulla necessità di digitalizzare tutto, creare algoritmi certi e chiari, rafforzare i controlli, dare un contenuto concreto alle espressioni ricorrenti (come, ad esempio, le espressioni generiche “anomalo andamento dei lavori”). Di fronte alla richiesta di più soldi da parte degli appaltatori, è necessario verificarne la fondatezza. Quello delle riserve è un sistema che risale a 40 anni fa. È ora di ripensarlo anche grazie al contributo dello sviluppo tecnologico. Infine, vogliamo parlare dei subappalti e dei subcontratti? Va bene, ammettiamoli, ma occorre poi controllarli, soprattutto quelli a cascata».
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