Fondatore di 2+1 Officina Architettura, studio di sperimentazione progettuale rivolto alla ricerca, all’avanguardia, alle sovrapposizioni culturali. Dal 2018 fondatore e presidente di officinediciotto società di ingegneria e architettura. Dal 2017 consigliere di amministrazione di UNI (Ente Italiano di Normazione). Componente dell’European Monitoring Committee (EMC) di FEANI (European Federation of National Engineering Associations). Dal 2017 vicepresidente del Quacing (Agenzia Nazionale per la certificazione dei corsi universitari di studio in ingegneria).
Il tempo contemporaneo è un tempo veloce in cui troppo spesso individualismo e personalizzazione ostacolano la fertilizzazione di un terreno nel quale idee e pensieri possano germogliare; la fertilizzazione, cioè, di un ambiente in cui è data possibilità alle scintille di incendiare animi e passioni. Accade nella politica, caratterizzata da una costante crescita della distanza tra rappresentanze e cittadini. Accade nel lavoro. Accade nelle professioni, governate ancora da regole, approcci e linguaggi nati in un tempo troppo diverso dall’oggi. Accade nella scuola e nell’università, dove appare urgente la necessità di luoghi in cui saperi e competenze divengono unità. Accade nel nostro mondo, quello dell’ingegneria e dell’architettura. Insomma, isole troppo distanti per essere arcipelago.
Ci sono stati, però, momenti in cui noi umani, forse anche un po’ inconsapevolmente, abbiamo generato incroci che a un certo punto sono diventati terreno fertile. È accaduto, e accade, quando si vive una condizione in bilico tra consapevolezza della realtà e immaginario scatenante.
La tragedia della pandemia se da un lato ha amplificato le criticità già presenti nella società, dall’altro ha riscoperto la capacità di realizzare, nei momenti critici, grandi sforzi collettivi. In questo senso, rifacendomi ad alcuni pensieri che potrebbero apparire distanti tra loro, rileggo la condizione dell’ingegneria italiana provando a darne un orizzonte personale.
Mi viene in mente, per esempio, il jazz e la sua capacità progettuale. Nato agli inizi del XX secolo come evoluzione dei canti di lavoro degli schiavi afroamericani nelle piantagioni e nei cantieri di ferrovie e strade, il jazz è metafora di creazione spirituale, poliedrica e multidisciplinare. Metafora che sembra parlare all’oggi. L’età del jazz, raccontata da Francis Scott Fitzgerald, è, infatti, la fase del ripensamento critico del rapporto tra organizzazione e casualità, tra regola ed eccezione, tra motivo dominante e variazione, e quindi, in definitiva, tra tradizione e innovazione, tra memoria e progetto. È la rappresentazione dell’attraversare e del vivere il confine tra senso della continuità e della permanenza e bisogno di apertura al nuovo e alle opportunità che, di volta in volta, si affacciano e invitano a essere colte.
Questi anni ‘20 del terzo millennio potranno essere, diversamente, “ruggenti” se riusciremo a costruire il Jazz Club del nostro tempo. Quel luogo, cioè, per quanto attiene al mondo dell’ingegneria e dell’architettura, in cui non difendiamo status quo o competenze singole (le cui linee di confine fissano e amplificano disuguaglianze) ma esploriamo con occhi nuovi l’universo multidisciplinare con la consapevolezza che l’ingegneria, come l’architettura, interpretano linguaggi e discipline differenti per costruire il percorso che va da un’idea alla sua realizzazione. Tanto più nel tempo contemporaneo in cui, ancora non per tanto, convivono e si intersecano linguaggi analogici e linguaggi digitali. Siamo dentro questo passaggio che se da un lato rappresenta una grande opportunità, una migliore gestione della complessità del progetto e della sua realizzazione, dall’altro costituisce un potenziale rischio di perdita di conoscenza e di esperienza tra generazioni.
E a proposito di sostenibilità e confine tra consapevolezza della realtà e immaginario, penso a quando, nel 1968, precisamente la notte di Natale, William Anders, uno dei membri dell’Apollo 8, scatta, forse inconsapevolmente, una semplice fotografia passata alla storia con il nome di “Earthrise” – la Terra che sorge. Il nostro pianeta, visto dall’oblò della navicella in orbita attorno alla luna, è un puntino blu nell’oscurità. Un’immagine iconica, considerata una delle più importanti di sempre. Un’immagine che apre gli occhi sul fatto che noi umani viviamo un’isola bellissima e preziosa ma anche limitata e fragile nel suo delicato equilibrio. La luna e le stelle, nel nostro immaginario, ancora oggi continuano a far parte dei sogni, della transizione tra possibile e reale.
Ecco! Transizione, uno dei termini più utilizzati in questo tempo (insieme a sostenibilità). Transizione (trans-ire, dal latino andare oltre) significa attraversare, trasformare. In genetica costituisce una mutazione. Per la termodinamica, e non solo, le transizioni sono il passaggio da una situazione di equilibrio a un’altra. Passaggi che possono essere reversibili, trasformazioni che consentono, cioè, di essere ripercorse in senso inverso riportandoci alle condizioni di partenza, oppure irreversibili, caratterizzate dall’impossibilità del ritorno allo stato iniziale.
Lo sfruttamento delle risorse, la riduzione o meno dell’inquinamento, gli effetti dell’azione dell’uomo sul clima, dipendono, ancor prima che dalle scelte politiche, da una transizione culturale consapevole che parta dal rimettere insieme sapere scientifico e cultura umanistica; dalla necessità del ri-cercare l’unità tra saperi e competenze nel rapporto tra uomo e ambiente.
In questo senso il linguaggio dell’ingegneria e la sua capacità di muoversi al confine tra teoria e prassi, tra pensiero meditante e pensiero calcolante, diviene oggi elemento necessario (ma non sufficiente) per immaginare, e modificare, il mondo. L’ingegneria e l’architettura italiane, caratterizzate da competenze di base eccellenti ma mediamente polverizzate, scontano da alcuni decenni l’incapacità a costruire reti professionali stabili, organizzazioni complesse. Il nostro tessuto professionale costituisce, potenzialmente, un enorme innesco che ha necessità, però, di ulteriori condizioni al contorno.
Pur comprendendo la complessità del momento e la tensione del Governo nella direzione delle riforme, sarebbe importante, per l’ingegneria italiana, un ulteriore sforzo che guarda alla next generation. Occorre, a mio parere, cambiare l’approccio di una legislazione fiscale da alcuni anni indirizzata a incentivare la piccola e piccolissima dimensione. Non che questo sia, in assoluto, un male. Ma, in un mondo in cui le relazioni tra gli elementi sono più importanti degli elementi stessi, occorre costruire opportunità per connettere competenze e discipline, non per separarle in recinti quasi mai comunicanti. La complessità dell’economia contemporanea richiede, infatti, competenze multi e interdisciplinari e, quindi, un tessuto capace di connettersi e organizzarsi. Questo è ciò che occorre per essere competitivi sul mercato professionale italiano ed europeo; la capacità di fare rete, di tèssere competenze e linguaggi, di associarsi (anche in forme flessibili).
Il mondo della tecnica italiana ha dimostrato, in un altro tempo, questa capacità. Penso alla ri-costruzione del dopoguerra, alle infrastrutture e alle costruzioni di quegli anni. Penso, per esempio, alla costruzione dell’Autostrada del Sole. 800 chilometri, 400 ponti e viadotti, 570 cavalcavia, 38 gallerie, una media di 100 km/anno su uno dei tracciati più difficili del mondo, che nel 1964, dopo solo 8 anni dall’avvio del processo, avrebbero trasferito dal mondo del possibile a quello del reale un sogno tutto italiano. È stata l’ingegneria italiana che ha costruito e ri-costruito l’Italia del ‘900, che è divenuta modello internazionale e ha fatto grande il made in Italy nel mondo. L’ingegneria che ha saputo coniugare saperi tecnici e saperi umanistici. L’ingegneria che, insieme all’architettura e ad altre discipline, ha contribuito ad aprire orizzonti di cambiamento, che ha formato sensibilità e rafforzato ideali. L’ingegneria che ha avuto e ha il compito di tenere vivo uno dei sensi più alti di noi umani: quello della possibilità.
Appare, oggi, un tempo in cui si facevano le cose impossibili. In cui un’intera classe dirigente, amministrativa, professionale, imprenditoriale, insomma un’intera società ha reso possibile l’impossibile.
Non vuole essere, la mia, una celebrazione nostalgica di un tempo sicuramente diverso. Però il richiamo a una cultura e alle grandi opere del passato e del presente assume oggi un significato particolare perché ci accingiamo a spendere in infrastrutture, materiali e immateriali, una parte rilevante dei fondi legati al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza. Il fattore “tempo”, unitamente all’organizzazione del lavoro professionale e a una scuola rinnovata, divengono la variabile più importante, l’impegno più gravoso. Un recente studio della Banca d’Italia mette in evidenza che la durata media delle opere di importo superiore alla soglia europea è di 10 anni: esattamente il doppio del tempo che gli impegni con l’Europa in tema di risorse economiche ci impongono.
Negli ultimi anni il dibattito sul codice appalti (abbandonarlo e utilizzare le sole direttive europee o, viceversa, mantenerlo riscrivendone molte parti) ha generato una disputa sterile che rischia di ulteriormente dividere i protagonisti in campo anche su ciò su cui tutti certamente concordano: e cioè che i grandi e i piccoli committenti (privati e pubblici) producono contratti e procedure che non rilanciano l’economia reale; che le imprese di costruzioni e il mondo delle professioni tecniche arrancano; che i contenziosi e le opere incompiute aumentano. E in tutto ciò social e letteratura specialistica parlano di imprese italiane che, all’estero, progettano e costruiscono opere e infrastrutture diffondendo l’eccellenza di quel know how e di quelle competenze che il mondo ci invidia, rispettando budget, tempi e qualità.
Nel campo delle infrastrutture la sfida necessaria per il 2022 e il prossimo futuro sarà quella di coniugare le esigenze imposte dalle regole comunitarie per l’utilizzo dei fondi con le riforme attese da decenni. Infatti, mentre l’economia reale beneficia di risorse economiche mai viste, il Paese cresce e si prepara a cambiamenti strutturali che resteranno ben oltre il limite temporale imposto dalla programmazione del PNRR.
L’estrema rigidità delle procedure ha condotto al fatto che nelle regie di processo tradizionali previste dal Codice, il contratto, dopo un tempo di gestazione troppo lungo, diviene il luogo in cui l’appaltatore ha come scopo principale quello di dimostrare le carenze del “progetto” (che si vorrebbe “perfetto”). Il contratto diviene cioè lo scenario di un confronto epistemologico in cui il progetto nell’estenuante confronto tra “congetture e confutazioni”, richiamando Karl Popper, cerca di resistere e dimostrare, resistendo, la sua validità. La costruzione dell’opera è il fine ultimo delle azioni di un processo plurale in cui una molteplicità di protagonisti non devono essere “avversari” alla ricerca di presunte deficienze dell’uno o dell’altro, ma, viceversa, soggetti che, nel rispetto di ruoli e responsabilità distinte, perseguono, insieme, lo scopo della costruzione dell’opera. Il contrario di ciò che accade oggi.
In questo senso riprendo quanto recentemente scritto da Giovanni Cardinale su L’Ingegnere Italiano richiamando la necessità di indirizzarsi verso la formazione di committenti capaci di stare sul mercato come acquirenti esperti. Le regie di processo innovative (partenariato per l’innovazione, offerta competitiva con negoziazione, consultazioni preliminari di mercato, dialogo competitivo) rappresentano il cuore della soluzione del problema di coniugare efficienza amministrativa con competizione, sostenibilità, capacità progettuali e gestionali, qualità dell’opera, trasparenza.
Infine, richiamando la connessione tra discipline e in particolare tra ingegneria e architettura, penso al recente dibattito sulle Linee Guida per la qualità dell’architettura e non solo. Le linee guida – come ci insegna la cultura scientifica in ambito medico – costituiscono raccomandazioni di comportamento. Un insieme di informazioni che, sviluppate sulla base di conoscenze e saperi, hanno la finalità di rendere appropriato un comportamento desiderato. Dovrebbero tracciare una rotta. Dovrebbero essere la mappa per raggiungere “il tesoro nascosto”, come racconta Stevenson ne L’Isola del Tesoro. Ma quali comportamenti, e soprattutto, i comportamenti di chi, potranno condurre al “tesoro”? Sono convinto che i tratti sbiaditi, disegnati su una pergamena ingiallita e dai contorni consumati – se mai si riuscisse a trovarla – indicherebbero un deciso cambio di rotta. Le sue linee e i suoi simboli, comprensibili solo a chi sa “guardare altrimenti”, delineano la rotta per l’isola che, secondo Edoardo Bennato, sembrerebbe essere “l’Isola che non c’è”. Per questo, per incamminarsi verso qualcosa che non c’è, abbiamo necessità di donne e uomini illuminati e visionari.
Seconda stella a destra, questo è il cammino, e poi dritto fino al mattino…
Per trovare la seconda stella dobbiamo “ri-cercare” il luogo in cui i saperi e le competenze divengono unità. Il luogo in cui non ci sono individualità eccessivamente autoreferenziali. Il luogo in cui si è – realmente e profondamente – consapevoli che il risultato, oltre a essere molto più della somma delle singole parti, è la sintesi di un processo di sovrapposizione di linguaggi e competenze dei tanti attori protagonisti.
La seconda stella è il luogo in cui l’opera è la sintesi di un processo plurale e interdisciplinare di persone, di committenti, di professionisti, di organizzazioni e maestranze, capaci di interagire e sovrapporsi. Il luogo in cui vivono, studiano e si formano, con il contributo di una scuola rinnovata, committenti di qualità, politici di qualità, progettisti, professionisti, imprese e artigiani di qualità. Il luogo in cui i capolavori in arte e scienza (e quindi anche in ingegneria) servono a ricordarci che per vivere abbiamo bisogno di cercare la verità, perché senza siamo perduti. E proprio per questo la qualità diffusa si deve nutrire dell’insegnamento dei grandi maestri che hanno saputo interpretare la complessità unendo magistralmente linguaggi diversi.
Per trovare la mappa, prima ancora che la seconda stella, occorre saper esplorare con occhi nuovi l’universo multidisciplinare in cui le relazioni tra gli elementi sono più importanti degli elementi stessi. E quando avremo trovato la mappa e individuato la seconda stella, allora potremo proseguire “dritto fino al mattino” per raggiungere l’isola dove, citando Gio Ponti e Pierluigi Nervi, non ci sarà una vera linea di demarcazione tra Ingegneria e Architettura, perché non è possibile e perché quella “impossibilità” appartiene all’esattezza che certe cose siano inesatte. Un’isola dove si è consapevoli che la qualità del risultato è prima di tutto funzione del valore delle donne e degli uomini che partecipano al processo per conseguire quel risultato, e non solo ed esclusivamente del tipo di laurea conseguita.
Cerchiamo la mappa, mettiamoci in navigazione, individuiamo la seconda stella a destra e poi dritti fino al mattino troveremo la strada che rifarà grande la nostra ingegneria e la nostra architettura.