Nata e cresciuta a Firenze, si laurea in comunicazione con una tesi in semiotica del design, iniziando così a coltivare la sua passione per la cultura del progetto. Lavora come design strategist su progetti a cavallo tra comunicazione e prodotto e scrive di design per la carta e per il web (Artribune e Domus). Dopo quattro anni in Medio Oriente, vive oggi a Parigi, dove oltre che a occuparsi di scrittura continua a collaborare, tra gli altri, con i programmi di design per lo sviluppo delle Nazioni Unite.
Sfatiamo l’equivoco dell’anziano che spia i lavori in corso. E permettiamo all’umarell di farsi apprezzare non solo come caricatura folkloristica, ma anche come modello virtuoso: di una terza età proattiva, e di un approccio ai lavori pubblici orientato al valore comunitario. Oggi anche in versione statuetta, per i cantieri digitali di chi lavora davanti a uno schermo.
È entrato addirittura tra i neologismi dell’ultimo Zingarelli con una definizione che ne sottolinea non solo l’iconica posa, ma anche l’attitudine insaziabilmente ficcanaso. «Pensionato che si aggira, per lo più con le mani dietro la schiena, presso i cantieri di lavoro, controllando, facendo domande, dando suggerimenti o criticando le attività che vi si svolgono» recita il dizionario alla voce “umarell”, regalandoci un ritratto sospeso tra la gustosa, e squisitamente italiana, caricatura di costume, e un’istantanea diventata, oltre al dato anagrafico, soprattutto lo specchio di un’attitudine.
Sono le “l” finali a mettere in luce l’origine dialettale del nome affibbiato a questo particolare pensionato da quartiere. Umarell è infatti la cantilenante incarnazione bolognese del corrispettivo italiano di «omarello, ometto», emblema dell’uomo della strada infuso di senso pratico oltre che di familiarità enciclopedica con la realtà locale. È sotto le due torri che la figura del pensionato impiccione, osservatore implacabile dello svolgimento – e degli errori – della conduzione dei cantieri in corso, prende piede grazie alla curiosità etnografica di Danilo Masotti, blogger e animatore culturale che per primo ha codificato e divulgato al grande pubblico la figura dell’umarell. Di quest’ultimo, Masotti è il primo ad identificarne alcuni tratti fisici, come le mani costantemente dietro la schiena, appunto, e la posa protesa in avanti per sbirciare oltre la rete, monitorando per ore il lavoro degli operai. Ancora, dell’umarell Masotti non esita a mettere alla berlina i tratti un po’ ridicoli – innanzitutto l’idea che il pensionato guardi i cantieri perché malvoluto a casa sua, dove è visto come un intralcio dall’incontestata padrona di casa, la consorte pensionata o casalinga. Eppure, da quella che è indubbiamente una parodia caricaturale è assente o estremamente smorzato il commento sarcastico: il giudizio di Masotti è bonario, ma mai completamente sprezzante, riconoscendo innanzitutto la fibra di un ultrasessantenne che rifugge dal binomio “poltrona e tv” e trasforma i lavori in corso in una forma di passione sociale, di militanza civile, di aggregazione, complice la predisposizione dell’umarell a confrontarsi tra pari davanti al cantiere, commentando l’andamento dei lavori in modalità aperta, a metà strada tra il siparietto e l’implacabile revisione collettiva.
Sarà sempre Masotti a suggerire una modalità aperta di crowdsourcing per radicarne il riconoscimento, contribuendo a rafforzare la presa di questa figura nell’immaginario collettivo. Il suo blog “Umarells”, lanciato nel 2005, inviterà ufficialmente i suoi lettori a documentare la presenza dei pensionati da cantiere attraverso il mezzo fotografico, dando vita ad una competizione di scatti originali, sempre sul filo dell’ironia, presto allargatasi a tutta Italia. È dunque attraverso questo scouting di gruppo che l’umarell – così come successo successivamente su Instagram alla sciuraglam, altra avanguardia in versione borghese e femminile della canonizzazione sociale da hashtag della terza e la quarta età – viene consacrato alla pura mitologia.
L’umarell, diventa così la metafora di una cultura aperta – open software, open access, open data – che tanto ha plasmato e si è imposta nella nostra società con la democratizzazione delle tecnologie informatiche. Una cultura che ha legittimato il contributo di tutti coloro che sapevano, a dispetto del proprio rango, apportare un contributo costruttivo, riconoscendo che è proprio attraverso lo sguardo benvolente di una comunità allargata, vigilante ma positivamente orientata al risultato, che i prototipi in corso d’essere possono trovare una finalizzazione solida, compiuta, tendenzialmente migliorativa rispetto alla versione precedente.
Un potenziale, quello della via collaborativa alla gestione del cantiere, che le istituzioni hanno finito per riconoscere, prima valorizzando la funzione sociale di questa insolita terapia occupazionale per gli over ’65, e infine arrivando attraverso alcuni esperimenti pilota ad una vera e propria istituzionalizzazione. È il Comune di Riccione, infatti, ad inaugurare nel 2015 la prima ufficializzazione del ruolo dell’umarell attraverso un contratto di undicimila euro stipulato con una cooperativa di anziani, incaricati di verificare la corretta rimozione e smaltimento della sabbia per un cantiere cittadino. Ancora, è un imprenditore di Pescara, Alessio Sarra, ad inserire delle vere e proprie finestre accompagnate dalla scritta “Segui il cantiere” per permettere agli anziani di monitorare l’andamento del suo cantiere in tutta sicurezza, senza rischiare di sporgersi o cadere guardando tra gli spiragli di una rete. Un’iniziativa, questa, di cui si è intuito la portata anche in altri comuni, come ad esempio quello di Treviglio, in provincia di Bergamo, o, più recentemente, a Melzo, dove la ristrutturazione della Cascina Triulzia, primo caseificio ad inaugurare nel diciannovesimo secolo la produzione di formaggi a pasta molle, accoglie niente meno che una terrazza dedicata agli umarell con tanto di infopoint. Per non parlare poi dell’idea del comune di Rapallo, che alle terrazze ha addirittura preferito due grandi monitor che proiettano le immagini dei lavori sul depuratore cittadino, ultimo strumento di fact checking quanto all’utilizzo dei fondi pubblici.
L’avvento del Coronavirus, con la sua parentesi di ineludibile inattività forzata, è riuscito a mettere in pausa l’attivismo degli umarell, come persino una canzone di Fabio Concato, scritta durante il confinamento, ha finito per riconoscere. Rendendo ancora più d’attualità una recente incarnazione, uscita nel 2017, che dell’umarell restituisce lo spirito, ma ad uso domestico ed in versione miniaturizzata e tecnologica. “L’umarell sempre qui e mi guarda / E mi dice: ‘cosa fai con le mani in mano?’ / Gli rispondo: ‘cosa posso fare in quarantena’ / ‘Io non lo so, sei tu che suoni il piano!'”, canta Concato pensando al proprio esemplare di mini-umarell edito da Superstaff, laboratorio di fabbricazione digitale milanese dove nasce l’idea di replicare la figura dell’umarell in versione statuetta. Stampato in 3d, questo umarell a metà tra il simulacro e la statua votiva prescinde dal monitoraggio della dimensione urbana per avvicinarsi ai tanti dipendenti e freelance che, relegati a casa, si misurano sempre di più con la propria inefficacia, l’assenza di motivazione e concentrazione, i propri errori.
“La cosa più difficile da fare è lavorare duro quando nessuno ti guarda”, dicono da Superstuff, ed è per rimediare alla mancanza di un super-io tra le pareti domestiche che il loro umarell esercita il suo potere di suggestione guardando dritto verso la nostra tastiera, affinché il nostro ticchettio produttivo non conosca battute di arresto o divagazioni. Meglio di un software di produttività personale, l’umarell per il lavoratore del terzo millennio è ora disponibile anche in maxi formato o in versione “glow in the dark”, per brillare della sua aura luminosa anche al buio, quando gli schermi hanno smesso di illuminare il volto pallido dei nuovi lavoratori digitali. Un’aura di cui fino a poco tempo fa nessuno avrebbe potuto immaginarsi l’eco. E che proprio grazie a questo meccanismo di scambio, di interazione costruttiva – vera o sublimata che sia – deve tanta parte della sua presa nel nostro immaginario.