Qual è stato quest’anno il tema principale nell’ambito degli Stati Generali dell’Economia Circolare?
«Il tema centrale è stato il rapporto dell’imprenditoria della penisola con le questioni aperte dalla transizione ecologica: da quella energetico climatica a quella dell’economia circolare. La relazione tra industria ed ecologia è stata indagata in una fase complessa come l’attuale caratterizzata dall’aumento dei costi dell’energia e delle materie prime e dalle conseguenze del cambiamento climatico che quest’anno ha colpito in modo significativo anche l’Italia. Il contributo alla discussione della Fondazione Sviluppo Sostenibile si è concretizzato proprio nel corso dell’ultima edizione di Ecomondo, durante gli Stati Generali della Green Economy. Qui, infatti, abbiamo presentato un’indagine molto approfondita e accurata. Una fotografia fedele, un report intitolato “Le imprese italiane e la transizione ecologica” e realizzato con la collaborazione di EY, società internazionale di consulenza direzionale. Lo studio ha coinvolto un campione molto vasto di imprese sopra i dieci dipendenti di tutti i settori e di ogni dimensione. Dalla particolareggiata istantanea, tratteggiata grazie al metodo delle interviste, emergono moltissimi fattori. Due su tutti i più significativi. Il primo è la disponibilità delle aziende verso la transizione ecologica che appare di ottimo livello. Il secondo è rappresentato dalle preoccupazioni degli imprenditori che, oltre a dover sostenere l’aumento dei costi delle materie prime, considerano troppo pesanti le procedure burocratiche necessarie all’attuazione della transizione».
Quali sono le caratteristiche che le imprese del futuro dovranno avere affinché il “sistema Paese” centri l’obiettivo della transizione ecologica?
«Le imprese del futuro dovranno essere sostenibili con prodotti e processi produttivi di qualità. Quindi rispetto al passato più attenti agli impatti climatici, tema che è stato a lungo sostanzialmente ignorato, e con processi e prodotti più circolari. Infatti, il modello lineare che genera troppi rifiuti e consuma ingenti risorse naturali è un paradigma ormai decisamente non sostenibile e – aggiungerei – anche molto caro e dunque assai poco competitivo. Tuttavia esistono buone ragioni per essere ottimisti. Il cambiamento è già in atto, larga parte dei produttori italiani stanno investendo nella direzione appena indicata, con le imprese medio-grandi, a elevato livello di esportazione e collocate nell’Italia settentrionale più decise in questo cambio di passo. Su alcuni settori in particolare le nostre aziende sono all’avanguardia. Ad esempio, siamo tra i leader europei per le attività che riguardano il riciclo, l’utilizzo efficiente dell’energia dei materiali. Di contro, evidenziamo maggiore difficoltà nell’utilizzo di fonti energetiche rinnovabili, anche se la programmazione di moltissime realtà produttive prevede, in questa fase, grandi investimenti per un deciso cambiamento di rotta. In generale i comparti più impegnati in senso green risultano l’agricoltura, la manifattura e le utilities, in posizione medio-alta si collocano le costruzioni, mentre presentano una maggiore lentezza, sulla via della transizione e una più forte resistenza al cambiamento, i settori della grande distribuzione, della logistica e, paradossalmente, della comunicazione dove si riscontra poco impegno in questo ambito.
Altro dato interessante evidenziato dalle nostre rilevazioni, è che esiste una certa omogeneità territoriale tra nord e sud, sebbene persistano problemi di ricezione delle tematiche eco-sostenibili nelle regioni meridionali. L’indagine, tramite indicatori ampi e complessi e attraverso lo strumento delle interviste telefoniche rivolte ai titolari di moltissime aziende, classifica, secondo criteri estremamente analitici, tre categorie di produttori: gli advanced (45%), ossia coloro che hanno attuato misure, investimenti, spese piuttosto significative per la transizione muovendosi con decisione in tal senso, gli starters (36%), ovvero coloro che hanno programmato di iniziare a muoversi verso policy aziendali che favoriscono l’ecosostenibilità senza compiere, tuttavia, decisivi passi concreti, e infine il livello dei ritardatari (delayed) che comprende quanti, sia in termini di progettazione futura che in termini di azioni effettive compiute, non si sono ancora mossi sul terreno di un necessario cambio di paradigma e neppure stanno programmando di farlo».