Fabrizio Baleani si laurea in Filosofia all'Università di Macerata e si diploma al Master per l’Informazione Culturale promosso dall'Università di Urbino e dal Centro europeo per l'Editoria. Giornalista, ha scritto per service editoriali, radio, testate. Si occupa di contenuti editoriali e relazioni con i media per la società di comunicazione LOV.
«La progettazione? Deve rispettare la coscienza dei luoghi». Intervista al Prof. Paolo Venturi, Direttore di Aiccon
Luoghi liquidi, comunità mobili, nuove espressioni dell’abitare, sono contrassegni di un’epoca globale in perenne mutamento. Una complessità crescente che ha modificato il concetto di spazio da sempre oggetto d’indagine, come dimostrano ad esempio le preoccupazioni novecentesche del giurista Carl Schmitt, impietoso analista di un Pianeta totalmente amministrato dalla tecnica e dalle strategie economiche transnazionali, “spazialmente neutro e indifferenziato”. Sulla relazione tra uomini e territori, sul legame tra conoscere e dimorare, Paolo Venturi, Direttore di Aiccon – Centro Studi su Economia Sociale promosso dall’Università di Bologna ha messo a punto studi di estremo interesse. Docente di imprenditorialità e innovazione sociale presso l’ateneo del capoluogo emiliano e per numerose altre istituzioni, l’acuto sociologo è membro di numerosi comitati scientifici di Fondazioni e Centri Ricerca, banche e gruppi di lavoro ministeriali. Autore di oltre 50 pubblicazioni fra cui l’ultima edita da Egea 2022 Neomutualismo. Ridisegnare welfare e competitività dal basso. Collabora stabilmente con numerose testate, fra cui Il Sole 24 Ore, Il Corriere della Sera e Vita Magazine.
Il fenomeno della globalizzazione per un verso e i processi di digitalizzazione per l’altro, è sembrato avessero definitivamente archiviato la rilevanza della dimensione di luogo – ritenuta ostacolo e limitazione a un pieno sviluppo delle potenzialità insite nelle nuove occasioni aperte dalla creazione di un mercato unico globale e dalla “iper-prossimità” offerta dai nuovi strumenti tecnologici. Eppure, oggi il protagonismo dei territori sembra essere tornato in auge. Come è avvenuto questo processo?
«Nell’ultimo decennio non si è assistito solo al manifestarsi di profonde trasformazioni e lacerazioni che hanno messo in discussione i principali modelli di sviluppo e ideali di progresso delle società occidentali, ma nello stesso tempo, e in maniera più silenziosa, si è osservata anche la nascita di una molteplicità di nuove esperienze che, seppur ancora poco conosciute, hanno saputo innescare delle vere e proprie controtendenze. Non è un caso che, guardando in particolare al panorama italiano, si noti l’emergere di un crescente dibattito attorno a temi quali lo sviluppo delle aree interne e la rigenerazione urbana il cui insieme dimostra il serio tentativo di costruire una nuova prospettiva sul “fare-territorio” e “fare-comunità”. Quella a cui si è posti di fronte è dunque una sfida prima di tutto culturale, riguarda cioè in primis i modi attraverso cui bisogni, desideri, risorse e volontà si intrecciano per strutturare gli spazi di vita collettivi. In questa nuova centralità della dimensione territoriale, si inserisce la riscoperta dei luoghi ossia quegli «spazi fisici e virtuali dove relazioni sociali, economiche e tecnologiche producono significati condivisi». Una tale rinnovata cultura trova poi concrete declinazioni in esperienze come: le cooperative di comunità, le imprese sociali, i patti di collaborazione per i beni comuni, progetti di rigenerazione urbana, piattaforme per servizi di welfare, la creazione di distretti intersettoriali, i community hub, insomma tutte quelle realtà che mescolando insieme una pluralità di codici (culturale, economico, politico, di welfare, ambientale) generano organizzazioni ibride attorno alle quali si strutturano luoghi aperti non solo a scambi commerciali ma anche a usi comunitari. La dimensione di luogo, infatti, si costruisce dentro una rinnovata collaborazione fra diverse istituzioni: tutti i soggetti, pubblici o privati, informali o istituzionali, di modeste o grandi dimensioni, sono chiamati ad agire collaborando insieme».
Come può incidere la costruzione per valorizzare la rilevanza strategica dei luoghi sia sul fronte della competitività in ambito produttivo, sia sul fronte della coesione, della socialità e dei sistemi di cura, si pensi, ad esempio al comparto sanitario?
«È sempre più urgente orientare la progettazione e la costruzione di immobili verso una ritrovata “coscienza dei luoghi” (Becattini) capace non solo di ottimizzare lo spazio fisico (urbs) ma di dare forma alla vita in comune (civitas). Per fare ciò, come già anticipato occorre ripensare le forme delle governance territoriali alla luce di possibilità inedite di collaborazione fra i diversi attori del territorio e mettere in campo risposte condivise che guardino alla vita delle persone, alle loro capacità e aspirazioni, in un’ottica maggiormente ecologica. La costruzione di una nuova generazione di “luoghi comuni” e di “economie di luogo” passa, infatti, dalla simbiosi fra l’abitare e il valore d’uso di spazi concepiti come piattaforme multifunzionali ad alto valore aggiunto sociale e culturale. Negli ultimi anni, sono sempre più numerose le iniziative che hanno catalizzato e addensato intorno a spazi spesso degradati o sottoutilizzati nuove relazioni tra attori diversi, con l’obiettivo di individuare destinazioni d’uso che rispondessero meglio alle sfide sociali che caratterizzano la nostra epoca. Partnership e reti attivate non per occasionali “matrimoni d’interesse”, ma per costruire vere e proprie infrastrutture sociali, intorno alle quali i Comuni e le imprese più lungimiranti stanno costruendo vere e proprie politiche ad impatto sociale. La stessa finanza, tradizionalmente attenta agli investimenti sugli asset, sta modificando i propri criteri di scelta, preferendo quelle soluzioni urbane capaci di incorporare funzioni sociali e comunitarie spesso co-prodotte con organizzazioni senza scopo di lucro».
Sono oltre 750 mila le strutture immobiliari in condizione di abbandono (palazzi, ville, edifici ecclesiastici, strutture industriali), oltre 6.000 i chilometri di ferrovie inutilizzate, circa 1.700 stazioni e un elevato numero di strutture pubbliche di grandi metrature, come ospedali, caserme e sanatori non più utilizzati. La progettazione può aiutare un patrimonio del genere a rinascere?
«La progettazione deve radicalmente cambiare. Quello che abbiamo visto negli ultimi 30 anni ci testimonia il fallimento di una ri-qualificazione urbana che ci lascia spesso una eredità in termini di lacerazione comunitaria e disuguaglianze. La necessità di ricucire questa lacerazione e aprire una nuova stagione di interventi di rammendo e rigenerazione urbana basata su luoghi abitabili e generativi trova la sua concreta realizzazione nella volontà di integrare in modo inscindibile progettazione sociale, sviluppo urbano e investimenti immobiliari, in particolare nelle grandi operazioni di rigenerazione nelle aree periferiche. D’altra parte, anche tra gli sviluppatori va diffondendosi una crescente consapevolezza dell’ampliarsi della differenza tra il valore degli asset in portafoglio basato sulla qualità fisica e tangibile degli asset e il realistico valore di realizzo degli stessi. Quest’ultimo, in molte delle aree particolarmente difficili delle grandi città italiane, è presumibilmente molto inferiore al valore presunto di mercato determinato secondo parametri puramente immobiliari e plausibilmente vicino allo zero in un numero non trascurabile di casi. In altri termini, il valore degli asset, in assenza di un mercato, non trova corrispondenza nelle tradizionali misure economiche ma è unicamente il riflesso del valore della progettualità sociale che può esprimersi all’interno o al contorno di questi. È forse quindi venuto il tempo di guardare il tema della rigenerazione delle periferie come occasione per ridisegnare “una diversa idea di città”. Una città più inclusiva e relazionale».
Oggi si parla molto di green building. Come potranno incidere nelle costruzioni del futuro?
«La crescente sensibilità ambientalista, maturata nella comunità internazionale negli ultimi anni, si è giustamente trasferita nel settore delle costruzioni, infatti gli edifici sostenibili hanno visto una forte crescita. In Italia, l’adozione di protocolli di sostenibilità nel settore edile è in continuo aumento. Leggendo l’ultimo “Impact report” dell’edilizia sostenibile certificata nel nostro Paese, pubblicato il 14 giugno dal Green Building Council Italia (GBC), emerge che le certificazioni di sostenibilità energetico-ambientale del sistema Leed (Leadership in energy and environmental design), il più diffuso al mondo, sono state adottate da più di 500 edifici in tutta la penisola, per una superficie complessiva di nove milioni di metri quadrati. Secondo i calcoli riportati, l’insieme degli edifici certificati fino a ora corrisponde a una “città sostenibile” di 180mila persone; per fare un paragone, è come se tutta la popolazione della città di Modena vivesse in case con un impatto ambientale ridotto. Questa spinta è necessaria e fortunatamente irreversibile. L’impatto e la responsabilità delle costruzioni in questa transizione sono rilevantissimi, perciò servono strategie integrate nella propria “compliance e governance”. I big player delle costruzioni dovranno “intenzionalmente” garantire ex ante di non danneggiare l’ambiente, riducendo in maniera significativa (o, addirittura, eliminando del tutto) l’impatto negativo prodotto. Per esempio sarà sempre più importante “armonizzare” le costruzioni con il contesto naturale, comunitario e architettonico circostante».
Nel corso degli ultimi eventi alluvionali, abbiamo potuto osservare la marea di una solidarietà liquida che ha invaso le zone più vulnerabili dell’Emilia-Romagna. Ricostruzione e in genere l’abitare sono concetti che entrano nel dibattito pubblico soltanto nelle situazioni emergenziali. Come se i luoghi e la loro organizzazione non avessero un valore in se stessi. Crede che da questo dipenda anche una scarsa cultura della prevenzione?
«La cultura della prevenzione è scomparsa dal nostro Paese, tanto quanto quella dell’investimento nelle generazioni future. Occorre porvi rimedio e ribaltare la prospettiva utilitaristica che immagina il futuro come una proiezione del passato. È necessario costruire “il presente del futuro”, ossia agire e decidere con la consapevolezza degli effetti che generiamo su ambiente, vita e nuove generazioni. Prevenire e investire su un diverso modello di sviluppo è prioritario. Le emergenze a cui stiamo assistendo sono segno di una complessità che sta diventando “normalità”. Le costruzioni e le politiche urbanistiche devono perciò immaginare soluzioni buone non solo per massimizzare l’utilità economica del presente, ma per aumentare la felicità degli abitanti di domani. La prevenzione va perciò legata a un nuovo paradigma di “costruzione inclusiva” e non più estrattiva».
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