Dopo la formazione in architettura all’Università La Sapienza di Roma, città in cui ha conseguito l’abilitazione professionale, si è occupata per anni di allestimenti museali, per mostre e fiere presso studi di architettura e all’ICE – Istituto nazionale per il Commercio Estero. In seguito si è specializzata frequentando il “Corso di alta formazione e specializzazione in museografia” della Scuola Normale Superiore di Pisa. Dal 2016 coordina la sezione architettura di Artribune, piattaforma per la quale scrive da giugno 2012, occupandosi anche della scena culturale di Firenze, sua città d’adozione. I suoi articoli sono stati pubblicati su Abitare, Domus, Living, Klat, Icon Design, Grazia Casa e Sky Arte. Oltre all’architettura, ama i viaggi e ha una predilezione per l’Estremo e il Medio Oriente.
Studi di architettura: verso i 25 anni di Park Associati
In questa intervista l’architetto Michele Rossi, partner e co-fondatore di Park Associati insieme a Filippo Pagliani, descrive il metodo di lavoro dello studio fondato a Milano nel 2000. Un approccio consacrato dalla recente attribuzione del Premio Architetto italiano 2024 da parte del CNAPPC – Consiglio Nazionale Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori.
Park Associati ha da poco vinto il Premio Architetto italiano 2024. Il riconoscimento è stato assegnato dal CNAPPC per il Luxottica Digital Factory, un intervento di recupero architettonico industriale che ha contributo alla rigenerazione urbana dell’area milanese in cui sorge. Cosa rappresentano quest’opera e il recente premio per lo studio, prossimo a tagliare il traguardo, nel 2025, del venticinquennale?
«È un premio importante e negli ultimi anni è stato spesso assegnato a progetti molto interessanti, ma di piccola scala. Averlo vinto con un intervento che ha sicuramente una dimensione e una complessità diverse da quelle dei vincitori recenti per noi vuol dire che è stato riconosciuto che la qualità risiede anche nella capacità di gestione dei cantieri complessi e in un approccio più interdisciplinare, di gruppo. La volontà di collaborare tra architetti ci caratterizza fin dall’inizio, ovvero fin da quando 25 anni fa formando lo studio abbiamo deciso di non chiamarlo con i nostri nomi. Avevamo chiara l’idea di andare nella direzione di un’architettura che fosse oltre un singolo individuo».
Sempre a Milano, città in cui ha sede lo studio, avete ultimato di recente la riqualificazione di Torre Permanente, progettata negli anni Cinquanta da Achille e Pier Giacomo Castiglioni e Luigi Fratino. Che cosa ha rivelato, nel corso dell’intervento, questa torre a livello di peculiarità costruttive e materiali?
«Costruire sul costruito è uno dei temi più importanti tra quelli che abbiamo portato avanti nel corso di questi 25 anni, anche lavorando su architetture del Secondo dopoguerra come in questo caso. Per qualsiasi progetto del genere c’è bisogno di uno studio preliminare, con analisi storiche, per poi elaborare la strategia di intervento. A differenza dei siti storici – che hanno delle prescrizioni che derivano dalla normativa o dalle soprintendenze, in grado quindi di indirizzare in maniera chiara il nostro operato – sugli edifici del dopoguerra spesso non ci sono vincoli. In ogni caso, c’è però l’esigenza di seguire con responsabilità il progetto, capirne le potenzialità, l’aspetto originario, le motivazioni che hanno spinto il progettista verso certe scelte. Comprendere davvero su cosa si sta operando e di conseguenza decidere come recuperare, adattare, modificare è una parte che penso dia gran valore al nostro lavoro».
Cosa ha comportato, anche dal punto di vista delle tecnologie, adattare la Torre Permanente alle esigenze della nostra epoca?
«Si tratta di un edificio che aveva sicuramente dei problemi tecnici: non un’eccellenza. Era stato realizzato con un budget non altissimo, in un periodo in cui non sono mancate costruzioni di livello superiore. Molto pulito, con un interior dell’ingresso straordinario, aveva un profondo bisogno di essere rinnovato, soprattutto dal punto di vista energetico. La possibilità di riutilizzare la superficie ci ha consentito di alzare la torre di due piani; tra l’altro abbiamo scoperto che c’era un’idea di sopralzo per questa torre già dei Castiglioni: molto diversa dalla nostra – era una specie di villetta messa in testa all’edificio – ma esisteva. Nei due nuovi piani esprimiamo la nostra idea di Torre Permanente: più snella e slanciata. Abbiamo inoltre cercato di usare lo stesso materiale originario, posandolo in una maniera diversa, così da creare alcune linee d’ombra che contribuiscono a dichiarare cosa è stato aggiunto, ma sempre cercando di integrarlo al progetto originario. Questo è ciò che cerchiamo di fare in ogni caso in cui ci troviamo ad aggiungere delle tessere agli edifici: cerchiamo sempre di dichiarare il nostro lavoro, senza voler far finta che l’edificio sia nato in un’altra maniera».
Restiamo su questo tema. Come studio operate in molti campi, dalle nuove edificazioni agli interni fino, appunto, ai recuperi e alle ristrutturazioni. Quali strategie adottate per rendere concretamente utilizzabile e attrattivo l’esistente, cercando di conservarne l’identità?
«Il tema per il futuro non è preservare necessariamente qualsiasi cosa: non siamo per il mantenimento a tutti i costi. Costruire sul costruito può infatti prevedere la demolizione in certi casi, magari parziale. In qualsiasi progetto che affronteremo nei prossimi anni sicuramente andremo a interpretare quanto già disponibile, circostanza non particolarmente comoda o facile, ma comunque necessaria. È importante prendersi la responsabilità di quello che si fa: bisogna avere dei buoni motivi per adattare un edificio oppure per cambiarlo completamente o per tenerlo il più originale possibile».
Sul fronte della progettazione sostenibile, la scorsa estate avete sperimentato l’uso di materiali bio-based e tecniche di progettazione non convenzionali al workshop Myco-fabrication, per realizzare il Dirty Lab Pavilion; più di recente avete diffuso il manifesto ATLAS, da voi redatto. Quali sono i tratti distintivi di questo che voi definite come uno «strumento operativo nato dall’analisi degli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile (SDG) del Programma delle Nazioni Unite» e in quale modo lo impiegate nella vostra pratica quotidiana?
«Quello della sostenibilità per noi è sempre stato un tema difficile; più in generale, negli ultimi anni, è diventato un termine abusato, usato anche in maniera impropria. Abbiamo quindi pensato di trovare un modo che potesse diventare una “guida” in qualsiasi nostro progetto, in qualsiasi nostra azione, per essere pragmatici e onesti. Qualcosa, in altre parole, che non fosse soltanto finalizzato a conseguire la classe A oppure a rispettare la normativa corrente, ma che diventasse un aiuto nella progettazione. Così ha preso forma Atlas, che recepisce le direttive delle Nazioni Unite, ma che è soprattutto uno strumento adattato ai nostri temi di progetto. E riflette anche il nostro sforzo nella ricerca e nell’innovazione».
Ovvero?
«Già cinque anni fa abbiamo costituito un gruppo di ricerca interna che ci aiuta a elaborare strategie e approcci ai progetti. Opera in maniera autonoma e separata dai progetti, che spesso seguono iter con tempi ridotti. Questo gruppo, che ha un coordinatore, sviluppa ricerche poi condivise con il resto dello studio. Rientra nell’ottica che citavo prima, nell’idea di un collettivo di architetti aperto allo scambio e al confronto su tematiche specifiche».
Il 2025 segna i 25 anni di Park Associati. Cosa organizzerete?
«Sicuramente una grande festa! Per il resto, siamo sempre stati un po’ allergici alle monografie e quindi stiamo pensando sì a una pubblicazione, ma sarà più vicina a un saggio che a una monografia. Visto che come studio già organizziamo attività, conferenze e iniziative che si svolgono nella nostra sede, sicuramente ci piacerebbe intensificare quel programma. Magari portandolo anche in città».
Quali cantieri dovrebbero essere conclusi entro il 2025?
«Abbiamo tanti progetti in corso; i più interessanti sono quelli che concorrono a ridefinire lo spazio urbano, tra cui Palazzo Sistema (un edificio per uffici di proprietà di Regione Lombardia, n.d.R.) e MI.C. (dalla demolizione dell’hotel Michelangelo, a ridosso della Stazione Centrale, n.d.R.), entrambi a Milano. In entrambi i casi abbiamo ricevuto anche l’incarico di progettare le piazze, gli spazi urbani, i giardini che sono alla base degli edifici. E questo per me rappresenta un tema di sviluppo importante: nel senso che si può costruire l’edificio più bello del mondo, ma se è privo di una relazione con quanto gli succede intorno il risultato è molto sterile. Quindi stiamo cercando di allargare il più possibile la progettazione ai temi del disegno urbano e del paesaggio. Infine, stiamo per consegnare P35, che è un edificio firmato con Snøhetta, e Lybra, che sorge a Porta Nuova e che prevede uno spazio molto spettacolare tra due edifici: una grande serra».
Cosa auspica, a livello di progettazione, per il futuro dello studio?
«Di base abbiamo cercato di diversificare il più possibile i progetti, senza andare verso una specializzazione. Ci piacerebbe sicuramente lavorare di più su una scala urbana e su edifici pubblici e complessi, con impatto sulla vita delle persone. In Italia è difficile, però ci stiamo provando e abbiamo fatto dei concorsi per ospedali e palazzi di giustizia. Il tentativo dello studio è quello di andare verso progetti di quel genere. In parallelo stiamo guardando oltre Milano e all’estero: in particolare ci stiamo concentrando sulla Francia, a Parigi, su Monte Carlo e in Belgio, dove il tema del recupero del costruito è molto sentito».
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